CORSO DI SCRITTURA CREATIVA
GLI AGGETTIVI
GLI AGGETTIVI
Generalmente, gli aggettivi più efficaci (quelli che danno maggiore affidamento, perché collaudati da una pratica lunghissima) sono quelli legati a esperienze "fisiche", cioè tattili, visive, insomma sensoriali, tipo alto-basso o pèsante-leggero etc. (“L’amore è dolce e amaro”, scriveva Saffo) .
Pensiamo che lo stesso lessico latino ha delle radici agrarie, nasce cioè al contatto con esperienze per così dire “terra-terra”; ad es. la parola “rivale" deriva da rivus (il significato originario di "rivali" è quindi quello di contadini che si contendono il limite del confine reciproco segnato da un fiume). Oggi va usato il termine "rivale", preferibilmente, appunto per indicare che è in contesa per il possesso o la conquista di qualcosa (magari una donna).
In generale gli aggettivi che attengono alle esperienze fisiche sono efficaci perché facilmente e opportunamente trasferibili anche alla sfera psichica.
Ma, naturalmente, anche questi aggettivi vanno usati in modo appropriato, cercando cioè di verificare prima dell’uso se corrispondono esattamente a quello che si vuole dire. Es. negativo: "E’ uno scrittore di grosso spessore". La cosa fa pensare, più che alla qualità dello scrittore in questione, alle dimensioni di un mobile o qualcosa del genere. Un aggettivo come "aereo”, invece, ha una sua effettiva leggerezza.
Altra avvertenza è di cominciare sempre dall’aggettivo più debole se si vuole usarne più di uno in fila (per dirne una, sarebbe meglio: "E vissero contenti e felici", giacché contento - che non per niente deriva da "contineo" - da’ un’idea di limite, da cui il proverbio "chi si contenta gode", mentre "felice" indica un'esperienza "assoluta").
Quindi, gli aggettivi devono essere in crescendo, proprio perché questo è lo stesso percorso delle nostre esperienze sensoriali. Sempre per quel che riguarda l'uso contemporaneo di più aggettivi, usarne due di significato affine, anziché rafforzare, affievolisce il senso della frase, ne diluisce l'effetto: ad es. "buono e mite". Dire solo "mite" consente di concentrare l'attenzione sull'unico aggettivo e il suo significato.
Quindi, è consigliabile l’uso possibilmente appropriato, cioè inserito nel contesto della frase, di aggettivi “collaudati”, evitando quelli che sono frutto di mode non altrettanto collaudate, quelle legate al cosiddetto “gergo”, cioè appartenenti ad un linguaggio impoverito, altamente inadeguato, come ad es. l'aggettivo "labirintico", che per essere usato comunemente ci è divenuto più familiare del giardinetto di casa.
Ed evitando anche l’uso drogato o spericolato di aggettivi come "allucinante", "favoloso", che sono spesso attribuiti alle esperienze più banali tipo “ un sole incredibile” e quindi esautorati di un qualche significato .
Il gergo o meglio i gerghi, come quello che proviene dall’ultima ondata della moda, non vanno mai accettati e recepiti supinamente, solo perché sono termini che usano in molti. Solo chi pensa poco, non fa nessuna resistenza al gergo. Nel gergo vanno compresi anche termini come input, budget, know how, che tutti usano come scorciatoie, come facile e comoda semplificazione che rivela la scarsa voglia o l’incapacità di approfondire delle situazioni complesse che richiederebbero delle finizioni ben più adeguate; anche l’uso, tanto di moda, dell’e/o non precisa nulla se non lo scarso senso di humour di chi lo usa: è una forma di pedanteria che ha il solo risultato di annullare l’effetto della frase.
Da tutto questo occorre tenersi a debita distanza, opporsi alla finta suggestione dei linguaggi prefabbricati per aggrapparsi a quegli aggettivi che hanno una loro fondatezza, legata appunto alla loro "fisicità".
Aggettivi di cui diffidare sono anche quelli –perentori - che di solito ritroviamo nella critica che vuol persuadere (specie quella dei risvolti di copertina dei libri).
Aggettivi tutti in -bile, come "indispensabile" etc. "memorabile", "indelebile", "insostituibile", sono tutti aggettivi dotati di una suggestione assai forte, e appunto per questo vanno usati con molta discrezione.
Spesso troviamo aggettivi in contesti in cui non c’entrano niente: è un uso molto sofisticato dell’aggettivazione, un uso “dissociato” o “schizofrenico” che va anch’esso usato con molta parsimonia.
Leopardi diceva che non è buona norma usare o meglio abusare di aggettivi spericolati (magari adoperati ripetutamente, con effetti disastrosi), perché oltretutto questo da’ subito l’idea di limiti espressivi propri dello scrittore, di confini angusti del suo sapere.
Oltretutto, l’effetto di quest’aggettivazione drogata è quasi sempre riduttivo.
La sobrietà è tipica di un linguaggio sciolto, disinvolto, mentre quasi sempre la sovrabbondanza di aggettivazione nasce dalla mancanza di inventiva (e di cultura).
Insomma, l’aggettivo va usato solo quando e se aggiunge qualcosa di essenziale al sostantivo; in caso contrario, ottiene solo l’effetto di togliere energia: “Se non è utile, è nocivo”.
Per dirne una “cielo” è meglio che “cielo azzurro”, come sosteneva J.Renard. Famosa è rimasta l’espressione di Vittorini “Quell’estate ero in preda ad astratti furori”. “Astratti furori, cioè furori inadeguati, impotenti. E’ un caso di aggettivazione geniale, anche perché l’accoppiata è assai insolita (e forse mai usata né prima né dopo dal Vittorini).
Anche la posizione dell’aggettivo, prima o dopo il sostantivo, può essere determinante ai fini dell’effetto finale ( e questo non solo nella poesia, ma anche in prosa).
Insomma, in letteratura cambiando l’ordine dei fattori, al contrario che in matematica, il prodotto finale cambia, eccome!
Prendiamo ad es. l’espressione del Manzoni “Quel cielo di Lombardia così bello quando è bello” ( da notare che il Manzoni non dice “bellissimo”, non usa il superlativo quasi mai perché lo considera superfluo : una lezione evidentemente non appresa da quei giornalisti che spropositano di “supertestimoni” e via dicendo).
“Felice” o “bello” sono già espressioni di valore assoluto che non c’è necessità di puntellare con l’aggettivazione o il superlativo.
“Così bello quando è bello” : frase rimasta giustamente famosa. Quel “quando è bello”, ci fa tornare con i piedi per terra, è un rimanere in felice contatto con la realtà (grazie a quella lieve e connotazione ironica) che è tipico della grande letteratura, che ha sempre un intenti di realismo.
Prendiamo l’attacco di un romanzo giallo d’un autore di fine ‘800 (Bearnes) : “Una mattina del luglio … uccisi mio padre. Un atto che a quel tempo mi fece una profonda impressione”.
“Una mattina del luglio …” è un attacco usato spesso anche da Kafka. “Uccisi mio padre” : un’estrema violenza che acquista forza in virtù della secchezza della frase di sole tre parole. “Che a quel tempo”: questo è profondamente verosimile. Certo, rispetto alle convenzioni, questo circoscrivere l’effetto psicologico dell’atto commesso a un periodo ben delimitato di tempo sembrerebbe un paradosso provocatorio. In realtà, l’apparente paradosso si basa su un dato di profondo realismo. Tutti possiamo verificare, infatti, come il reo, a distanza di tempo, si consideri innocente, spesso profondamente innocente, o meglio non si sente più colpevole, ha quasi rimosso i fatti ed il relativo senso di colpa, perché si sente cambiato dentro.
“Mi fece una profonda impressione”: la frase acquista ancora più una valenza ironica, grazie soprattutto a quel “profonda” che in questo contesto è davvero un aggettivo azzeccato.
Un esempio di aggettivazione che è ritenuta spesso opulenta, lussureggiante, sfarzosa, ed invece non lo è affatto, è quella di Gadda ( è lo stesso errore che compiono gli imitatori di Borges, che si ritengono in dovere di usare a piene mani, ad esempio, gli ossimori tipo “costernazione felice” di cui, invece, il Borges è assolutamente parco. Certo, può essere in prima analisi un andare alla ricerca di nuove scoperte linguistiche, ma oggi un ossimoro del tipo “amore-odio”, liquidato come pedagogia divulgativa, non ha più il senso che aveva a se. in Catullo).
Ci sono aggettivi come “kafkiano” (usato spesso per definire situazioni in cui s’impatta con la burocrazia) o come “ platonico” (per definire, per così dire, un amore “in bianco” cui francamente Platone non aveva mai pensato) che non fanno altro che dimostrare la scarsa frequentazione di chi li usa – quasi sempre a sproposito – con i vari Kafka e Platone .
Kafka, in particolare, ha sempre nei suoi libri una connotazione ironica – che viene ignorata- , un mescolare cupo ed ilare, tanto che si dice ridesse dei suoi romanzi : un senso del limite e, insieme, della distanza, che ritroviamo in Gadda come in Kafka, in Puskin come in Checov – quest’ultimo in particolare suggeriva che il suo “Tre sorelle” dovesse provocare nel lettore o nello spettatore l’ilarità per la situazione grottesca delle tre donne di Pietroburgo piuttosto che far sparlare di tragedia etc. . Quando, nell’usare l’aggettivo “kafkiano” non si tiene conto di questa valenza “ironica”, si finisce per scrivere una banalità, e – come tutte le banalità – anche questa va evitata accuratamente.
Si diceva di Gadda. Ecco il suo attacco de “ La madonna dei filosofi” per descrivere uno spettacolo lirico a Milano : “ Si distinguevano agevolmente persone di moralità indiscussa “ il che, per definire coloro che si muovevano sul palcoscenico nella rappresentazione della Semiramide, è un’aggettivazione di tipo “comico” per definire personaggi assai dignitosi ) ..”dotate di buona volontà mesopotamica o di buona cultura classica “ : Gadda cerca sempre di non forzare , con la sua aggettivazione che altri hanno definito “barocca” , per rimanere sempre attendibile, “verosimile”, cioè in accordo con quella che si sa essere in qualche modo la verità, in modo che chi legge possa riconoscersi in quel che viene raccontato; ecco, se questo rapporto col lettore e con ciò che sa del mondo il lettore si spezza, chiaramente c’è il rifiuto da parte del lettore stesso ( per inciso, Leopardi gettò via il “Galateo” perché cominciava con uno stralunato “conciosiacosachè “).
Quindi, cercare la verosimiglianza, non la stretta e perfetta verosimiglianza, ovviamente, ma quel tanto che serve a far sì che il lettore possa identificarsi ( “svegliandosi si ritrovò insetto” è verosimile nel senso di una sensazione che può essere condivisa ; così com’è verosimile l’Odissea quando narra di un Ulisse che vive la sua esperienza amorosa con Calipso fuori del tempo).
Questo senso della misura e di verosimiglianza è tanto più necessario quando si affrontano i registri del grottesco e del fantastico, dove lo spirito grottesco e fantastico non va mai enfatizzato, se si vuole salvarlo: “Erano talmente affamati che si mangiavano anche la parola” . Una frase verosimile, sia pur nel paradosso.
La chiarezza che è di tutti i grandi non è mai comunque banalità, anzi, da un senso di accrescimento, di piacere, di sorpresa, di vitalità. Difatti, leggendo i classici, vediamo stranamente sommarsi le due sensazioni di conferma e di sorpresa al tempo stesso (qualcuno ha detto che “i classici ci rivelano noi stessi").
L’enfasi, così come il luogo comune, va aborrita ed evitata anche nell’aggettivazione, in nome della chiarezza non banale e della stessa sincerità dell’espressione (inviare ad es. dei “sinceri saluti” per lettera fa subito pensare che quei saluti sotto sotto proprio sinceri non siano).
L’aggettivazione più sincera è, infatti, sempre quella che sfugge ai luoghi e usi comuni, quella che punta sull’invenzione e non all’abitudine. Purtroppo, la nostra naturale tendenza all’acquiescenza ci fa spesso scegliere aggettivi ovvi e banali, che tradiscono spesso insincerità.
Prendiamo ad es. la motivazione della sentenza contro Tortora pubblicata dai quotidiani del 15 gennaio 1986: “ La conclusione che si deve trarre da quanto sopra esposto è un giudizio di assoluta colpevolezza dell’imputato la cui responsabilità è pienamente provata”. E’ una frase che fa tornare in mente quella di Jung sul “fanatismo come dubbio ipercompensato”. “Assoluta colpevolezza” e poi “pienamente provata”: sono espressioni che esprimono la paura del dubbio e la voglia di sbarazzarsene con un taglio netto (viene da chiedersi cosa ci sia di “assoluto” a questo mondo: si tratta chiaramente di un aggettivo che esprime paura, la paura appunto di ammettere il dubbio, lo stesso tipo di paura che avevano i persecutori della Controriforma, i Torquemada per intenderci, di riconoscere superiori a sé le loro vittime).
Prosegue la sentenza: “L’appartenenza di Tortora alla Nuova camorra organizzata è stata provata attraverso le dichiarazioni di etc. etc. Tutte queste accuse hanno trovato adeguati e convincenti elementi obiettivi di riscontro “; ecco un aggettivo che ha il difetto di non convincere il lettore (come nella lettera di rifiuto editoriale quando si dice che “l’opera non è stata trovata pienamente convincente”).
“I fatti dei quali Tortora è stato dichiarato colpevole sono invero di estrema gravità e dimostrano la spiccata capacità a delinquere del prevenuto non contratta certo dallo stato d’incensuratezza “: continua la sentenza, attribuendo al Tortora una posizione di “eletto” tra i criminali (sembra di leggere il Lombroso, che è roba di ottant’anni fa’). Da notare poi quel “certo” che provoca subito l’effetto opposto a quello voluto e cioè, anziché rafforzare l’assunto, lo indebolisce e fa subito nascere il sospetto: ma sarà proprio vero? Questo per suggerire che, passando agli avverbi, la falcidia deve essere ancora più spietata che nei confronti degli aggettivi, poiché un buon 70 per cento degli avverbi si rivelano inutili, anzi spesso dannosi. Bisogna, insomma, avere fiducia nelle parole, nei sostantivi in particolare.
La sentenza Tortora prosegue poi disegnando la figura – invero eccessiva – d’un Landru moderno, un “individuo estremamente pericoloso “ , in grado di “nascondere per anni in maniera egregia le sue losche attività ed il suo vero volto, quello di un cinico,mercante di morte tanto più pernicioso perché coperto da una maschera tutta cortesia e savoir faire”: come si vede, tutto scritto sopra le righe, con quel “cinico” che si aggiunge ad una già di per sé terribile definizione come quella di “mercante di morte”.
Paragrafo III
GLI AVVERBI
Assai più utili si rivelano di solito avverbi come “talora”, “ a volte “ che rendono più credibile il tutto proprio perché rispondono ai dati della nostra esperienza quotidiana (i “sempre” o “mai” sono tipici ad es. del linguaggio dell’amore, che non per nulla è un linguaggio drogato, in cui l’innamorato/a tende a scavalcare il fattore tempo).
Gli aforismi, che per loro natura tendono alla perentorietà, devono per la loro credibilità essere di un perentorio che tende continuamente alla cautela. E’ la verosimiglianza la vera chiave della credibilità anche di un aforisma e quindi della sua stessa perentorietà.
Dire ad es. “pochi conoscono la morte” risulta alla fine più perentorio che “nessuno conosce la morte” proprio perché più cauto e quindi più credibile.
Insomma, un “quasi niente” è più credibile di un “niente” .
“Sono poche le donne oneste che non siano stanche del loro mestiere”: è un aforisma di Rochefocault, dove la cautela dell’espressione sfocia in quel “mestiere” (invece che “virtù”) che da una connotazione ironica al tutto.
Paragrafo IV
I NOMI PROPRI
Qualcuno ha detto che i cattivi narratori si riconoscono dal fatto che usano dei nomi propri per i propri personaggi che risultano molto, troppo “evocativi”. Pensiamo ai grandi romanzi dell’Ottocento e ai nomi propri dei loro protagonisti, come Anna Karenina, Eugenia Grandet, Emma Bovary (quest’ultima con una radice che deriva da “bove”) sono tutti nomi assai “piani”, molto defilati: un modo - anche questo – per mantenere una distanza, un distacco tra autore e personaggio, anche quando –come accade in Flaubert rispetto a Madame Bovary di cui lo scrittore condivide sogni e insofferenze – ci sia un’identificazione tra i due.
Anche qui evidentemente usare un nome proprio piuttosto che un altro non è affatto indifferente; anche se in apparenza i nomi propri sembrano neutrali , il nome può significare molto.
Per inciso, si nota a volte - in chi scrive un riassunto di un’opera come accade per i giudizi editoriali affidati ai lettori comuni – lo sforzo di definire con esattezza tutti i dati biografici dei vari personaggi, a partire dai rispettivi nomi e cognomi. Questo non è necessario. In un riassunto come in un articolo, se c’è qualche punto dell’azione o elemento del personaggio che non si riesce a ben definire, la cosa migliore è abbandonare ogni tentativo di definizione: quello che conta è solo e unicamente che il pezzo funzioni.
Come esempi negativi di uso dei nomi propri citiamo lo “Zeno Cosini” della “Coscienza di Zeno” di Italo Svevo, un nome troppo evocativo, cioè troppo esplicito sulle intenzioni dell’autore nei confronti del suo personaggio. Così è per l’Azzeccagarbugli del Manzoni, che era in origine “Pettola” di ben altra efficacia e divenne il troppo esplicito Azzeccagarbugli nella seconda stesura del romanzo.
Anche il “Mattia Pascal” di Pirandello non è scelta molto felice : sono entrambi nomi piuttosto ricercati , che non devono aver molto favorito il successo dell’opera.
Quindi, prima di usare dei nomi propri, occorre badare a quello che essi evocano. Dante, ad es., non sbagliava un nome: nella sua “Commedia” i nomi propri usati sono tutti plastici, nessuno stride. Così è per il Petrarca, che del resto aveva una cura da umanista e latinista qual era a non usare in genere nessun parola che fosse sgradevole, setacciando le sue parole di straordinaria grazia attraverso un filtro severo.
Il segreto è di non usare in un contesto drammatico delle parole che andrebbero usate piuttosto in un contesto tecnico e viceversa, come ad esempio : “Gli doleva la teca cranica”. Così il senso della frase evapora (i toscani sono portati dalla ricchezza del loro vocabolario a usare parole in contesti che le rifiutano ).
La proprietà della parola, la sua ricchezza espressiva sono fondamentali, nella prosa come nella poesia, tanto che si usa dire che la traduzione di una poesia in un’altra lingua, con un altro ritmo sonoro, fa sfumare il senso della poesia stessa.
Tornando ai nomi propri, occorre quindi evitare dei nomi la cui trasparenza di significato sia troppo evidente ( il “signor Rompiglioni”). Ci sono anche dei nomi grotteschi che funzionano, ma a patto che siano scelti con abilità. Il “Kappa” di Kafka, usato per definire un soggetto indefinito, come tanti, ma al tempo stesso un soggetto preciso, è un nome azzeccato, con la sua forza “teutonica” che non stona affatto nel “Processo”.
Alcuni autori, poi, impongono i nomi dei loro personaggi con un’ossessività che ha comunque sempre una funzione espressiva: nel “Circolo Pickwich di Dickens, si tratta ad es. di dare l’idea appunto del “circolo”, di un numero ristretto di persone. In Faulkner, il suo Huber afflitto da esigenze di tipo elementare, che non riesce a soddisfare, ci viene iterato continuamente a dare il senso d’una situazione statica.
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