giovedì 20 ottobre 2011

COMEFAREPER: SCRIVERE UN'OPERA LETTERARIA (PARTE PRIMA: USO DELLA PRIMA O DELLA TERZA PERSONA)

                             CORSO DI SCRITTURA CREATIVA (PARTE PRIMA)  

                                                           PARTE PRIMA


Paragrafo I

L’uso della prima o della terza persona

Quindi, il narratore ha due opportunità alternative: o racconta una vicenda di cui è stato protagonista o testimone (cioè in prima persona) o si limita a riferire fatti accaduti ad altri (terza persona), tenendo conto che anche nel primo caso, anche nel caso più conclamato di autobiografia, l’io narrante non va confuso con lo scrittore, è pur sempre un personaggio inventato, che affida la propria verità al tono di voce, allo stile, alle modalità narrative, ai lapsus, alle divagazioni, insomma a tutte le convenzioni da cui il linguaggio scritto non può prescindere, e che creano comunque una realtà “altra” rispetto alla presunta verità dei fatti narrati. E non è affatto detto che l’uso della prima persona offra più garanzie di persuasività che la terza persona. Il lettore si fa persuadere soprattutto dal “tono”.



Nel primo caso, comunque, il narratore racconterà solo quel che ha vissuto o visto personalmente o gli è stato riferito: è dunque una visione relativa, faziosa, stravolta della realtà . Es. l’ininterrotta “soggettiva” di La coscienza di Zeno di Italo Svevo, dove il mondo esiste solo nello sguardo disturbato e patologico del protagonista.

Nel secondo il narratore è onnisciente e onnipresente, come nei narratori dell’Ottocento. Come nel grande racconto corale dei I miserabili di Hugo, egli è sempre là, in ogni situazione , e conosce vita, morte e miracoli di ogni personaggio, tra le cui vicende può permettersi di saltabeccare con libertà, spesso chiosandole e commentandole dal suo piedistallo. E il mondo appare come un dato di fatto, con i connotati dell’oggettività, un mondo di cui l’autore ha un’idea precisa, sistematica, ideologica, in cui bene e male, buoni e cattivi occupano posti stabiliti.

La Commedia umana di Balzac è ad es. il tentativo di rappresentazione completa - storica, politica e filosofica - della realtà francese tra 1829 e 1847, cioè tra l’ultima rivoluzione e Luigi Filippo, giacché la letteratura è per il grande scrittore uno strumento di indagine storica, tanto che egli usa il termine “Studi” per definire i tre nuclei narrativi.

Ma quasi tutto il romanzo ottocentesco inserisce la singola vicenda dentro la più vasta cornice della storia, da Stendhal , che descrive i conflitti dell’individuo con la società, a Tolstoj, Zola, Dickens, Verga, Checov.. che disegnano centinaia di personaggi condizionati e spesso resi vittime dalla comunità, pur illudendosi di vivere in libertà, padroni del proprio destino come nei romanzi di Melville o Stevenson. Questo conflitto è meglio espresso in terza persona.

Talvolta però anche il narratore onnisciente si fa coinvolgere emotivamente nelle vicende narrate. Così il Flaubert di Madame Bovary, la quale vede e sente confusamente ciò che Flaubert rende chiaro. Così il Manzoni nel famoso “Addio monti sorgenti dalle acque etc.”, dove interviene a chiosare quelli che sono i pensieri di Lucia, che non potevano essere ovviamente quelli, espressi cioè in quella forma da una popolana quale era Lucia Mondello , ma –semmai- in quella tonalità emotiva.

Più esplicitamente, talvolta l’autore usa una terza persona che però sceglie di non abbandonare mai il suo eroe (è il cosiddetto discorso libero indiretto), ne usa il linguaggio, ne rappresenta la visione della realtà: una specie di terza persona “finta”, dunque.

Nei Malavoglia, scritto in libero indiretto, i protagonisti sono pescatori di Acitrezza. Verga non assume mai uno sguardo esterno a quel mondo, veste i panni dei suoi personaggi, indossa la loro personalità. Egli non interviene mai con un giudizio morale o affettivo, ma utilizzando una sintassi “mimetica” accetta con loro il destino.

Il Novecento invece è segnato da romanzi scritti in prima persona, che meglio si adatta a descrivere personaggi in crisi d’identità, che descrivono un mondo visto in soggettiva, un mondo che non ha più una forma unanimemente riconosciuta (messa in crisi da Freud, con la sua scoperta dell’inconscio, e dai nuovi modi di produzione), ma è solo il riflesso, la proiezione di una soggettività contraddittoria.

Così nel Vittorini della Conversazione in Sicilia c’è un io che irrompe sulla scena.

Di questo passo si arriverà ( con la corrente dell’ecole du regard degli anni cinquanta e sessanta) ad un io narrante che si autoelimina, limitandosi a registrare la realtà come una semplice sommatoria di oggetti e persone.

In ogni caso, una volta fatta la scelta dell’io narrante, non si può cambiare registro, fare come Bacchelli che introduce note storiche etc. , per non tradirla e quindi impoverire la narrazione.

La tecnica di un romanzo può essere anche un cocktail di tecniche, un continuo entrare ed uscire; l’importante è la coerenza , magari ricorrendo ad una modalità di scansione ritmica che si mantenga costante, sempre rapida ed incalzante.

E’ un po’ quello che fa, in campo cinematografico, l’Hitchcock di “La donna che visse due volte quando, improvvisamente, smette di seguire la vicenda con gli occhi del protagonista James Stewart per raccontarci come sono andate realmente le cose, passando cioè dal discorso libero indiretto (realtà soggettiva) alla terza persona (realtà oggettiva) .

Accade nella scena in cui, mentre Stewart insegue l’apparente sosia della donna suicida da un campanile ( Kim Novak), il regista inquadra il volto di quest’ultima e fa partire il flashback della morte: si rivede Stewart inseguire la ragazza lungo le scale d’accesso al campanile da dove l’ha vista precipitare, poi il regista lo abbandona in preda alle sue vertigini e sale con la macchina da presa in cima all’edificio per inquadrare una scena sorprendente: lassù c’è l’amico di Stewart che tiene immobilizzata una donna, che indossa gli stessi panni di Kim Novak e si rivela essere sua moglie, la vittima designata, pronto a gettarla di sotto.

In pratica l’amico, per liberarsi della moglie, aveva fatto indossare i panni di lei alla sua amante, la Novak, per far sì che Stewart, inseguendo quest’ultima, assistesse al finto suicidio dell’altra.

Il colpo di scena, una vera agnizione, avvia così la soluzione del plot. Allo stesso modo nel Capitan Fracassa di Theophile Gautier, nel momento topico della storia, il duello in corso tra il protagonista Sigognac ed il Duca che gli ha rapito l’innamorata Isabella, entra in scena, quale deus ex machina, il padre del Duca e di Isabella, svelando che il Duca non è altri che il fratello dell’amata. Con questo colpo di scena ogni conflitto si dissolve e con esso la storia.



Andrè Gide nei “Sotterranei del Vaticano” adopera molte tecniche: di solito narratore ottocentesco che da informazioni, magari con una certa reticenza, a volte è diaristico con irruzione di un io drammatico. Gide insomma è curioso della vicenda narrata, la vuol vivere dall’interno e dall’esterno.

Il Gide di “Sulle strade di Poitiers” è un esempio di narratore onnisciente. L’inizio è da verbale di polizia, notarile , si racconta di un processo con il punto di vista di una cronaca giudiziaria:



“Il 22 maggio 1901, il Procuratore Generale di Poitiers ricevette dunque una lettera anonima, in data 19 maggio, che diceva:

“ Signor Procuratore Generale, ho l’onore di denunciare un fatto di un gravità eccezionale. Si tratta di una signorina che è rinchiusa in casa della signora Bastian, priva di cibo sufficiente, che da venticinque anni vive su un lurido giaciglio, in poche parole nel suo marciume ”.

Nel ricevere questa lettera anonima, il Commissario Centrale di polizia di Poitiers, dietro ordine del Procuratore, e seguendo le sue istruzioni si recò al 21 di via della Visitazione, i1 18 maggio, alle due e mezza.
Una delle due domestiche che la signora Bastian aveva a suo servizio, la signorina Dupuy, rispose al campanello:
“La signora Bastian? “.
“La signora non riceve, è a letto “.
“Per favore, dica alla signora Bastian che sono il Commissario Centrale e che desidero assolutamente parlarle”.



Dalla prospettiva generale si passa rapidamente alla scena, come in un film: prima la panoramica, poi l’inquadratura particolare. Così da una narrazione impersonale si passa a un racconto in presa diretta, con operazione tecnicamente felice.

Esempio estremo è Henry James che si attiene strettamente al punto di vista di un personaggio, un punto di vista dunque soggettivo (sia pur non tipicamente come quello di un diario), senza spingersi oltre ciò che questo personaggio sa : niente dunque burattinaio che tira le fila, che intervenga a commentare come nel Manzoni, ma calato nel personaggio fino in fondo. Da qui le informazioni parziali, la nebulosità della sua narrazione. James è interessato a questa conoscenza graduale, piena di ombre, dubbi, perplessità .

I suoi romanzi assumono una fisionomia zigzagante che è frutto di questa immedesimazione col protagonista.

Ma si può anche entrare ed uscire come fa la scrittrice I. Bachmann, evitando però le stonature alla D’annunzio che si immedesima in un’azione e poi finisce col fornire dettagli incompatibili, propri di un occhio estraneo, estetizzante. Questo passaggio non è persuasivo, crea discontinuità. Una volta scelto un punto di vista, non si può tradirlo impunemente.

Simenon, dal canto suo, parte spesso con un’immagine in diretta, per poi ricostruire tutto quello che è successo prima: una tecnica complessa, per via di questo andare a ritroso.

Colette, ne “Il puro e l’impuro”: “ All'ultimo piano di una casa nuova mi aprirono la porta su un atelier vasto come una piazza, con un ampio loggiato a mezza altezza, e alle pareti quei ricami cinesi che la Cina fa per l'Occidente, a disegni grandi e un po' affrettati, piuttosto belli..”.., assume il punto di vista d’un personaggio umoristico, dove i dettagli descritti sono compatibili con lo sguardo d’una donna “poco socievole” .

Un autore come Hemingway scende a una specie di compromesso, di terra di nessuno, in cui il commento attribuibile al narratore onnisciente e le sensazioni riferibili ai protagonisti stessi sono spesso di difficile separazione.

Il grande segreto di H. è quello di lavorare in "splendida economia", senza affastellare ingordamente sensazioni; dire molto vuol dire, insomma, dire meno. Pound diceva a proposito della prosa di H. : "è una prosa che può insegnare alla poesia".

Vittorini, influenzato dalla tecnica dei narratori americani alla Hemingway, utilizza spesso i pronomi con effetto straniante, manieristico, con un gioco di “disse lui”, “disse lei” non strettamente necessario come in “Uomini e no”. Si rischia cioè di creare una ripetitività ossessiva alla “Bolero” di Ravel che solo un contesto adeguato può giustificare ( il Bolero ha comunque una sua dinamica interna).

Un esempio di uso geniale della terza persona è il Dostoevskij di "Delitto e castigo". All'inizio della narrazione il protagonista è "Raskolnikov", poi salendo di corsa le scale verso l'appartamento dell'usuraia è " il giovane " (la connotazione fisica) poi, commesso l'omicidio, "L'assassino arretrò due passi": è la percezione fulminea dell'inevitabilità di ciò che si è fatto che coglie effettivamente l'assassino appena dopo il fatto. Il tutto a dare l'idea della fulmineità del fatto, della sua realtà, senza usare elementi superflui e fuorvianti: il genio della semplicità, insomma.

Già, perché l'effetto straordinario si può ottenere proprio scandagliando l'avvio. Se si vuole che qualcosa si depositi nella memoria del lettore, occorre sottrarre anziché aggiungere (la notizia "drogata", dove si fa uso smodato di aggettivi esuberanti, finisce per sfuggire all'attenzione anziché il contrario).











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