CORSO DI SCRITTURA CREATIVA
a cura di franK WISE
dagli appunti delle lezioni di Giuseppe Pontiggia (1920-1990)
PROLOGO
Non ci si illuda di fermare l’eternità con una frase scritta : essa sarà sempre ed inevitabilmente oggetto delle più diverse interpretazioni da parte di chi legge ( non a caso i vari Buddha,Gesù,Socrate non scrissero una sola parola ).
Sfumature, pause, toni, gesti, emotività insiti nella parola - quella sì capace di fermare l’eternità nel presente - non possono essere trascritti nella pagina ; al massimo, si può tentare di avvicinarsi alla lingua parlata usando tutta una serie di accorgimenti , come ad es. i puntini sospensivi ( tra l’altro tanto odiati da Hemingway che da fautore della frase secca e precisa li considerava degli “svolazzi”).
Persino il giornalista-intervistatore con tanto di registratore portatile a tracolla , se non rende poi in qualche modo sguardi, gesti, pause dell’intervistato, produrrà solo una foto in bianco e nero di quel che s’è detto, con rischi di strumentalizzazione del messaggio.
Un altro accorgimento utile per accostare lo scritto al parlato è quello di lasciare sempre spazio alla sorpresa, alla digressione, cioè seguire lo stesso incedere che ha il pensiero umano. L’uso poi di punti esclamativi o interrogativi può servire a dare una maggiore vivacità al testo,vivacità che non si può certo chiedere al lettore nel corso della lettura.
Il lettore legge con tono uniforme, l’uniformità stessa della pagina stampata. La prosa dei “grandi” è, non per niente, solitamente assai animata come linguaggio, quasi il tentativo di recuperare o evocare il linguaggio orale di tutti i giorni. Da evitare però nel contempo scritture sovraeccitate cui il lettore opporrà inesorabilmente la sua cupa tetraggine.
Inventare, anziché cercare di riportare immediatamente sulla pagina delle esperienze euforiche, può avvicinare di più alla realtà, perchè la letteratura, la pagina scritta è una cosa e l’esperienza di vita tutt’altra cosa, fatta com’è di milioni di sensazioni che però restano assolutamente sullo sfondo quando ci si confronta con la pagina scritta, che è qualcosa di autonomo, di a sé stante.
In altri termini, lo scrittore ricostruisce artificiosamente, con le parole, un universo che appartiene al regno della fantasia, non della realtà, e perciò segue regole e logiche differenti rispetto a quel che accade nella realtà.
Un atteggiamento passivo, lo “stare a vedere” , il “trovare senza cercare” è il più delle volte utile a chi deve, ad es., recensire una mostra. La frase “ io non cerco,trovo” attribuita a Picasso ed anche a Stravinskij vuol dire in sostanza affidarsi alla propria vena, alla “invenzione” (da “invenire “ : trovare). Ad es. di fronte ad una mostra prendere nota solo degli aspetti che ci colpiscono.
Bisogna in sostanza avere una coscienza precisa di quelli che sono i limiti del linguaggio espressivo, cercare quindi di fermare sulla pagina, sic et simpliciter, un’esperienza è molto rischioso, perchè la pagina è pur sempre qualcosa di artificiale (nel tentativo di riprodurre un’emozione si finisce quasi sempre per arricchire il testo di quello che il testo in realtà non dice).
Un Piero Chiara che ascolta in giro degli aneddoti e poi, prima di trascriverli, li collauda raccontandoli agli amici è un caso piuttosto particolare e raro (e non per nulla poi la sua narrativa risulta molto “orale”).
Insomma, si può scoprire di più la realtà inventando che non ricordando.
“ Le migliori idee sono quelle che vengono a tavolino”, diceva Joyce.
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La “prosa” ( intesa nel senso forte del termine) è un percorso, un faticoso itinerario, una lenta conquista . Quando si scrive occorrerebbe sempre avere un atteggiamento di attesa .
E’ utile comunque porsi il problema dell’utilità per il lettore di quel che si va scrivendo ( “volendo far cosa utile a chi l’intenda”, come diceva Machiavelli).
L’altro ci legge perchè scriviamo qualcosa che in quel momento gli serve ( ad esempio, se si tratta di un libro di fantasia, dobbiamo dargli delle emozioni ). La letteratura è comunicare con gli altri, si tratta cioè di porgere all’altro un “oggetto” che sia possibilmente il più ricco possibile di significati per chi lo avvicina. Questo è tutto ( giocare tutta la propria vita sulla letteratura, sul risultato di quel che si sta scrivendo è un tipico atteggiamento immaturo ) : se riesce, bene, altrimenti.......
Ne’ si può pensare di condensare il senso della vita in poche parole : l’ambizione è importante, ma ha i suoi limiti. L’idea di una scrittura “autobiografica” è pericolosa : Shakespeare non trascrive le sue emozioni , attinge alla storia, alla novellistica, senza autobiografismi.
Il grande scrittore, specie moderno, può pensare alla sua vita in termini narrativi, ma nel momento in cui si scontra con la scrittura, fatalmente la modifica. L’idea di un rapporto molto stretto tra esperienza e sua trascrizione è romanticamente sbagliata. Tradurre in scrittura quello che si è provato è un tipo di ambizione sbagliata. Flaubert diceva di sé : “Sono un uomo di penna”. E Pirandello : “O si vive o si scrive” .
Così, la grandezza del sommo Dante consiste nella sua capacità visionaria che trascende di gran lunga le sue esperienze autobiografiche . Egli descrive la terra intera come : “ L'aiuola che ci fa tanto feroci ..”,(ossia che scatena fatalmente gli istinti violenti degli uomini) , immagina Capraia e Gorgona che si uniscono per chiudere l’Arno alla foce ed allagare la città di Pisa etc..
Rinunciando all’autobiografismo stretto, cioè a coltivare pedissequamente le nostre emozioni e sensazioni senza smuoverci di là, approdiamo ad un autobiografismo indiretto che magari dice più di noi che quello diretto: il bello è bello indipendentemente dal fatto che sia stato vissuto o meno.
In ogni caso è opportuno esercitarsi a “uscire da sé” , ad assumere i panni di personaggi lontanissimi da noi: solo così si troverà un lessico ed una lingua per ogni personaggio. Altrimenti, si utilizza una sola lingua, la propria, e la si mette in bocca a uomini, donne e bambini indistintamente. Senza contare che non esiste forme narrativa con più rischi di piattezza dell’autobiografia, in assoluto il genere letterario più difficile da affrontare. Lo scrittore deve imparare a lavorare “contro natura” , a non adagiarsi sulla propria lingua, sulle proprie esperienze personali (anche se crede di poterle restituire bene perché sono ricche di sentimenti autenticamente vissuti, perché popolate di luoghi e personaggi sperimentati, apparentemente facili da descrivere) . Anche perché rischia lo scarso controllo della drammaturgia, calato com’è in un racconto che spinge fatalmente ad una struttura narrativa piattamente cronologica: m’è successo questo, poi m’è successo quest’altro e quest’altro ancora ….
La scrittura è anche esercizio di libertà. La Dickinson, che nella vita di tutti i giorni era assai ligia alle convenzioni, acquisì scrivendo una libertà esaltante, scoprendo aspetti insospettati della realtà.
Anche i maestri del saggio, come Cecchi, Praz, Ceronetti, Citato hanno fatto un percorso di progressiva liberazione dagli schemi loro e altrui.
Imparare poi a leggere i libri in un certo modo, cioè come se li si stesse personalmente riscrivendo, è importante per imparare a scrivere bene.
“Nulla dies sine linea “ , cioè nessun giorno senza tratteggiare qualche linea ( o qualche riga), si diceva del pittore greco Apelle . Mettendosi ogni giorno al lavoro a tavolino può anche scattare l’ispirazione. Flaubert ad es. scrive Madame Bovary dopo una precedente scioccante stroncatura, abbandonando i fasti romantici che sognava per scrivere una “storietta di provincia”.
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