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COSTUME   E  SOCIETA’



















29 settembre 2008

Figli assassini

mhtml:file://C:\Documents%20and%20Settings\Primo\Documenti\LETTERE%20AI%20GIORNALI\ARTICOLI%20per%20AGORAVOX\Figli%20assassini%20-%20AgoraVox%20Italia.mht!http://www.agoravox.it/local/cache-vignettes/L300xH225/arton1010-cb2c6.jpg 
Si parla - per spiegare la genesi dei continui eventi delittuosi a carico di minori che riempiono le cronache recenti - di genitori che non trasmettono valori positivi ai propri figli o ne trasmettono piuttosto, specie con 1′ esempio, di negativi.
Ma per gli psicologi dell’età evolutiva la violenza dell’adolescente non è tanto qualcosa che si forma in lui e deflagra a causa di fattori negativi quali l’esempio dei genitori, quanto piuttosto l’esito di un blocco del suo sviluppo psichico dovuto in primo luogo al mancato apporto genitoriale.Quindi, il primo problema sembra essere quello della scarsa presenza o meglio spesso dell’assenza dei genitori dalla vita dei figli. La conferma viene dall’indagine dell’Osservatorio nazionale sulle famiglie presso il ministero del Welfare.
A fronte di dati che parlano di un venti per cento di bambini tra O e 12 anni con chiari segni di sofferenza psichica e per oltre il 50 per cento bisognosi comunque di assistenza specialistica , colpisce ad esempio che solo un’infima di genitori usufruisca dei congedi parentali , in particolare di quelli previsti dalla legge 53 del 2000 (dal primo all’ottavo anno d’età del bambino si può stare a casa per un massimo di dieci mesi di congedo riscattabile – il primo dei quali interamente retribuito - ed in ogni caso di malattia del bambino): appena il 4 per cento del totale dei dipendenti pubblici, ad esempio , nel 2004 , in particolare 2 maschi su cento (tutti o quasi concentrati nel primo mese, quello retribuito) e sei donne su cento. 
 Gli esperti ci dicono che questi genitori maschi, soprattutto i più giovani, vorrebbero essere di più in famiglia, ma si fanno condizionare dalla pressione sociale (in sostanza, dalla paura di essere considerati “scansafatiche” o magari addirittura irrisi per una scelta considerata tuttora “controcorrente”).
Questo nonostante la legge affermi un diritto autonomo, non alternativo a quello materno, di esercizio della paternità : niente da fare, gli uomini italiani restano fanalino di coda in Europa in termini di tempo dedicato alle cure familiari e domestiche. 
Anche le lavoratrici vorrebbero in buon numero riorganizzare diversamente lavoro e famiglia a vantaggio della seconda, ma in questo caso - dicono sempre gli esperti - sono le regole di lavoro troppo rigide ad ostacolarle.
Per la verità , ci sono norme che cercano di garantire prospettive di carriera e non discriminazione anche alle donne che scelgano ad esempio il part-time, ma loro non si fidano, tanto che solo il 15, 7 % delle lavoratrici italiane sceglie questa modalità di lavoro contro una media europea del 33,5% (e meno ce n’è, meno le altre sono invogliate a sceglierlo) .
In più, a dissuadere tante donne e’é anche la voglia di non darla vinta ad un maschio che, come abbiamo visto, continua a latitare, almeno in Italia, per non ribadire una propria inferiorità. Per tante, probabilmente, questo é più forte di rimorsi, scrupoli di coscienza e pressione sociale (ancora assai forte) per un ritorno in famiglia (soprat­tutto da parte di madri e suocere).
Il problema è che i figli da grandi saranno probabilmente spietati nell’attribuire la fonte di tutti i loro eventuali problemi a quest’assenza genitoriale, specie materna, nei momenti cruciali dell’infanzia e dell’adolescenza . Così come per i genitori sarà raggelante, una volta andati in pensione, scoprire di non conoscere a fondo i propri figli, così come accade ad Arnoldo Foà in una commedia che si rappresenta in questi giorni a teatro.
Dunque, pensaci Giacomino ( e Giacomina) !


1 ottobre 2008
L’omosessualità, la chiesa e Di Pietro
L'omosessualità, la chiesa e Di Pietro
Il Tonino nazionale ( alias Antonio Di Pietro) è indubbiamente persona di talento mediatico e fiuto politico. Non usa il politichese né si adonta più di tanto del sarcasmo dei suoi boriosi detrattori che – poveri di argomenti - ne criticano l’eloquio non particolarmente forbito ( ma efficace, al punto che uno dei suoi tormentoni preferiti, il famoso “Che c’azzecca ?” , è entrato di buon diritto nel linguaggio comune e persino nel lessico giornalistico).
Viene in mente, in proposito, il piglio disinvolto e mordace con cui Cyrano de Bergerac, a coloro che per sfotterlo alludevano alla sua ragguardevole appendice, suggeriva una funambolica sequela di possibili calembour sull’argomento, tanto per dimostrare il suo totale non cale di loro e dei loro banali sfottò.
 
A volte però il Nostro, nella sua naiveté, rasenta l’ingenuità.
 
Ad esempio, quando – di quando in quando – si chiede accoratamente, in qualcuna delle sue ormai un po’ troppo frequenti ed ubique comparsate televisive (lo si può a volte ammirare contemporaneamente in due o tre canali diversi) : “Ma perché un cristiano deve pretendere l’ostracismo per un suo simile, negargli non solo di convolare a nozze ma persino di vedersi riconosciuti diritti elementari soltanto perché omosessuale, in spregio alla regola evangelica "ama il prossimo tuo come te stesso"?
 
Ma benedetto Tonino, a parte che niente e nessuno può costringere un essere umano, per sua natura solipsista, ad essere altruista al punto da amare l’altro ( tanto più se connotato da un’alterità percepita come irriducibile) come se stesso, se non per libera scelta, è assai più facile che a certe considerazioni solidaristiche si approdi usando ragione e coscienza individuale, che non una fede che sull’argomento specifico è gonfia di idiosincrasie, superstizioni e fanatismi ideologici, portato di secoli bui.
 
Se infatti , anziché fermarsi al catechismo della prima comunione, don Tonino avesse approfondito la storia del cristianesimo, avrebbe "scoperto" che la sessuofobia, la repressione sessuale vi è connaturata persino più che nell’lslam. Tant’è che mentre questo promette un paradiso con le vergini ai virtuosi, quello - incapace di elaborare un paradiso tentante - non fa che minacciareeterne e sadiche punizioni per i recidivi della carne.
 
E tra i suoi bersagli preferiti c’è proprio l’omosessualità, considerata come "innaturale" perché" non riscontrabile nelle altre specie" (il che fra l’altro è del tutto inesatto).
Chisà forse un giorno, dopo aver chiesto perdono agli ebrei "deicidi", ai mussulmani per le crociate, alle vittime dell’Inquisizione - e aver pagato molte migliaia di dollari per le violenze sessuali ai minori, alla cui origine c’è l’innaturale - questo sì - celibato imposto ai preti -, la Chiesa chiederà perdono anche agli omosessuali . .
































 6 ottobre 2008

Muore un’anziana: effetto collaterale?

 
Forse dovremo cominciare a considerare eventi come la morte l’8 gennaio ad Albano della donna ottantenne per mano della badante rumena (notizia che ha avuto per inciso sui media un rilievo che non hanno notizie di segno opposto come quella della ucraina che ha rischiato la vita per salvare l’anziano accudito dalle fiamme) come effetti collaterali di un eccesso di delega di funzioni di cura a soggetti estranei al nucleo familiare.
Chi è il colpevole di questo “eccesso”? C’è non di rado una corresponsabilità dei parenti, anche i più stretti: hanno sempre meno tempo e voglia di dedicarsi ai propri vecchi - cioè a chi il suo, di tempo, glielo ha dedicato ininterrottamente, fisicamente o solo col pensiero, da quando li ha messi al mondo - né possono sentirsi giustificati dalla fatica improba che spesso quella cura comporta, specie dinanzi ad anziani in preda a demenze o Alzheimer.
Ma la responsabilità prima è dello Stato, in tutte le sue articolazioni statali e locali, che dovrebbe mettere i parenti dell’anziano nelle condizioni di occuparsene, anche a tempo pieno, se necessario, e non lo fa.
E non lo fa perché per lo Stato è meglio detassare i costi di badanti, di colf o di baby-sitter, etc, (che fanno crescere il PIL, questo moloch a cui tutto si sacrifica) che disporre di genitori - figli che non facciano mancare ai propri genitori come ai propri figli il loro insostituibile apporto.
Con effetti che a volte possono essere addirittura tragici, ma sono sempre gravemente negativi per gli uni e per gli altri.


























 7 ottobre 2008

Violenza sulle donne


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In questa storia sempre più tragica della violenza sulle donne ad opera di mariti, fidanzati o ex ( nel 2006 sono state centododici le donne uccise da questi “amorosi assassini” , come suona il titolo di un libro “collettivo” appena uscito sull’argomento,  e 4500 le denunce a CC e polizia) , le donne sono  in qualche misura  non solo vittime , ma anche "complici" più o meno involontarie della violenza che si consuma tra le pareti domestiche ( lo scriveva già, ma in un senso più generale, J.P. Sartre nell’introduzione al libro della consorte Simone de Beauvoir “L’altro sesso “ )  e non solo quelle provenienti da culture come quella sudamericana e di buona parte del nostro meridione, per cui l’uomo che non fa valere la propria supremazia fisica è considerato poco più di un debosciato e schernito dalle stesse rappresentati del gentil sesso . 
Intanto, perché al 91,6 per cento degli stupri e al 96 per cento delle aggressioni fisiche non sessuali non segue alcuna denuncia : le donne, le ragazze emancipate, istruite, disinibite, in carriera di oggi continuano a sopportare in silenzio , come facevano le loro nonne il secolo scorso . E questo fa mancare il deterrente della giusta condanna del maschio violento. Ma c’è un altro elemento da considerare . E’ vero che in qualche sondaggio le donne intervistate dichiarano genericamente di essere sempre meno affascinate dal macho tutto muscoli e niente cervello né cuore ( dal TGcom del 20 novembre 2007 : “ Non sembrano proprio esserci dubbi: il maschio ”rude e virile”, tutto muscoli e modi alteri di chi “non deve chiedere mai” non incontra più il favore delle donne. Basta insomma con i machi alla John Wayne: ora il modello maschile per eccellenza che fa impazzire le signore è l’uomo stile George Clooney: bello e affascinante, ma soprattutto capace di parlare con le donne e ascoltarle. Insomma un uomo che non sente minacciata la sua virilità se pensa alla famiglia, gli piacciono le coccole e non si sottrae alle faccende di casa”).
 Ma quando si va sul dettaglio , prevalgono altre statistiche e vecchi cliché :  l ’ultima in ordine di tempo ci rivela che l’uomo con un timbro di voce baritonale ha più chance di trovare partner.
Pare poi – secondo gli psicologi - che l’uomo di potere sia non soltanto considerato un buon partito dalle donne, ma addirittura “sessualmente attraente “ , anche se non è un Adone ! Insomma, ci vanno a letto volentieri , mica solo per circuirlo e farci magari carriera in politica ( come, a dar retta a qualche comico maligno tipo la Guzzanti e non solo, avrebbe fatto la Carfagna con Berlusconi ) !
 Se le donne  fossero capaci di spazzar via una volta per tutte questi vetusti cliché, cui paiono tuttora tenacemente attaccate, valorizzando unicamente  nell’altro doti di tenerezza, di capacità di ascolto etc. sarebbero probabilmente assai meno segnate da questo destino di violenza, che altrimenti pare ine­luttabile.
Tutto questo però alle “pasionarie” del Partito delle libertà” non interessa proprio : loro anzi difendono a spada tratta – contro gli stessi detrattori uomini del tipo Nicky Vendola -  la mentalità da “macho conquistador” del loro Silvio.





 10 ottobre 2008

Non criminalizziamo gli Ultras




 


La criminalizzazione tout court degli ultras, di tutti gli ultras, senza prima chiedersi chi e cosa c’è sotto questo fenomeno e questa escalation di violenza, insomma senza prima cercare di capire sarà pure comprensibile, ma non è utile.
 Intanto, non è accettabile che questa criminalizzazione venga proprio da chi l’ha voluta e perseguita a tutti i costi, cioè i giornalisti sportivi con le loro cronache sempre sopra le righe, anche quando ora attaccano gli ultras al grido di “Linciateli!” o qualcosa del genere.
 E non parlo solo di quelli delle radio private e locali, vedasi la compagnia di giro di quelli del Processo del lunedì, che agli ordini di Biscardi, a sua volta agli ordini di Moggi, hanno per anni imperversato in TV e continuano ancora, incredibilmente, come se niente fosse successo, a farlo – con qualche defezione e molti nuovi acquisti di prestigio (si fa per dire) come l’ineffabile “onorevole” (si fa per dire) Taormina - da schermi solo un po’ più periferici, a drogare il calcio con toni e parole forti, con esasperanti, assurde, minuziosissime moviole-autopsie di un cadavere qual’è la partita già giocata). Il tutto al solo scopo “di acchiappare audience, qualche soldo e qualche brandello di notorietà, senza capire, fino a quando non gli esplode in faccia, di maneggiare non chiacchiere, ma nitroglicerina” (cito da Vittorio Zucconi).
 E forse un qualche atto di contrizione dovrebbero farlo anche coloro che si scagliano ora contro i teppisti, ma tutte le domeniche, nei più infimi campetti di periferia, smettono i loro abiti di genitori-allenatori con funzione di educatori dei loro figli-atleti a rischio e vestono loro stessi quelli di esasperati ultras, stimolando anche la slealtà e la violenza di quindicenni che già picchiano come grandi, come se si disputassero qualche coppa intercontinentale.
 
Ma, soprattutto, non si deve criminalizzare, perché è proprio questa criminalizzazione che fa innalzare ulteriormente i livello dello scontro, proliferare gli atteggiamenti criminali, gli attacchi ai poliziotti e ad ogni autorità costituita dopo aver scritto sui muri, anche a Parma, “polizia boia” o “basta diffide” o frasi roboanti ed imbecilli come “Se ci dimezzeranno, ci salverà l’onore” degne di miglior causa, per finire ai “10, 100, 100 Raciti“ di questi giorni, scritte che un tempo non si leggevano da nessuna parte e tantomeno a Parma, perché ci si concentrava di preferenza contro la squadra avversaria con scritte come “Reggio merda” o “Forza Vesuvio” contro i tifosi napoletani cui questi replicavano ad esempio con un divertente “Giulietta è una zoccola” contro i veronesi - si è demonizzata una città intera, Verona, definita “sentina del tifo più razzista e becero d’Italia” - cosa che uno scrittore anglo-veronese come Tom Parks che s’è occupato del fenomeno nel suo “Questa pazza fede” nega sia vero in assoluto.
            Se io continuo a dire che gli ultras sono tutti teppisti e criminali, costringo anche quelli tra loro che non lo sono a diventarlo. Si vogliono criminalizzare anche gli ultras di città meno violente di Catania, Napoli o Bergamo, come gli ultras nostrani?
            Come scrive il sociologo A.Roversi: “I continui attacchi criminalizzanti dei mezzi di comunicazione e dell’opinione pubblica, che considerano tutti i tifosi organizzati come degli ubriaconi, dei drogati, dei disadattati e degli emarginati, degli assassini hanno ormai da tempo relegato il problema del teppismo calcistico ad un semplice problema di ordine pubblico, quando trattasi invece più propriamente di un problema giovanile con più vaste implicazioni sociali, psicologiche e culturali e come tale dovrebbe essere trattato, affiancando a repressive misure di polizia (valide nell’immediato) programmi di intervento basati su una diversa ottica di medio e lungo periodo“. Se non è già tardi.
            Ed è scandaloso che nei programmi del governo ci sia solo repressione, repressione e ancora repressione, niente di costruttivo, di educativo, con la stessa logica con cui Bush continua la sua guerra privata in Iraq.


13 ottobre 2008

Vite non parallele. Il mestiere del giornalista






Morando Morandini (quello del famoso, omonimo “Dizionario dei film “) ha dichiarato che “fare il critico cinematografico gli ha evitato di dover fare il giornalista, mestiere decaduto e degradato al pari dell’intera società “ (per farsene un’idea, consiglio la lettura del pamphlet di Marco Travaglio “ La scomparsa dei fatti” ).
         Questa la dirittura morale di un uomo che preferisce rinunciare ad una professione a lui congeniale pur di non dover piegare la schiena.
       Propongo di confrontare questa dichiarazione con quelle rilasciate da uno che il mestiere di giornalista lo fa , e senza tante remore, da anni, ossia il direttore dalla Gazzetta di Parma Giuliano Molossi: “Il nostro padrone è l’Unione Parmense degli industriali, lo sanno tutti. Per questo è ovvio che, per volere della proprietà, dobbiamo tacere alcune notizie (..) Nessuna mezza verità, nessuna bugia, ma solo l’occultamento di alcune verità “.
         Dunque, l’uno ringrazia il cielo per non aver dovuto sporcarsi le mani e la coscienza nella melma mediatica nostrana e l’altro confessa candidamente e senza un minimo di resipiscenza di essere un gazzettiere al servizio di qualche potente baronetto locale (con la tacita approvazione - presumo - di tutti i benpensanti parmigiani, che non sembrano sconvolti più di tanto di avere come unica fonte d’informazione locale poco più del gazzettino ufficiale di un’istituzione privata, ossia l’Unione Industriali di Parma).
        Il tutto in barba alla legge n. 69 del 1963 sull’ordinamento della professione di giornalista che all’articolo 2 stabilisce che “è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui, ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservare sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede" nonché “promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e la fiducia tra la stampa ed i lettori”.
     Insomma, roba da far rivoltare nella tomba pure il padre del Giuliano, Baldassarre Molossi, che da autentico montanelliano mai si sarebbe lasciato andare a sbracamenti così plateali.
giovedì 16 ottobre 2008

Piccoli Berlusconi crescono




 
 Per la serie “Piccoli Berlusconi crescono“: in un’epoca di grande spolvero berlusconiano, gli imitatori proliferano .

In quel di Parma, per esempio – pur avendo perso per strada per ragioni anagrafiche e giudiziarie un paio di emuli del cavaliere, ossia Pietro Barilla e Calisto Tanzi (anche loro, ovviamente, “caballeros”, sicuramente di diversa stazza morale e capacità imprenditoriali, ma accomunati dal vizietto della tangente) vantiamo un piccolo Berlusconi fatto in casa, cioè uno che –c ome quell’altro – s’è fatto strada con metodi spicci e sbrigativi, pur opponendo alla visibilità berlusconiana un assoluto understatement che - senza scomodare pletore di avvocati fidati, giudici prezzolati, e magari leggi ad personam – gli ha permesso ugualmente di passare praticamente indenne da tante bufere: Paolo Pizzarotti.

Di quello (Berlusconi) si narra che da piccolo studentello si faceva pagare le copie dei compiti in classe, di questo (Pizzarotti) che a soli diciannove anni, già bramoso di intrapresa, si fa emancipare dal Tribunale per assumere la titolarità della fabbrica fondata dal padre.

Queste le successive tappe del suo “cursus honorum”: nell’anno domini 1992 incappa nell’inchiesta dei giudici di Tangentopoli sui lavori per “Malpensa 2000” (l’aeroporto che sarà inaugurato nel 1998), che si è aggiudicato insieme ad una nutrita compagine di imprese, alcune pubbliche, messe su grazie al miliardo e trecento milioni di tangenti versate alla Democrazia Cristiana.

L’anno dopo, nell’ambito del filone “bergamasco” dell’indagine in corso sull’Anas a livello nazionale, Pizzarotti, la cui impresa si è aggiudicata l’appalto Anas per la costruzione del by pass stradale fra Lenna e Piazza Brembana, un affare da 60 miliardi, interrogato per chiarire se siano state versate tangenti, fa il nome dei due parlamentari “passati all’incasso”, uno democristiano e l’altro socialista.

Assolto in seguito per le tangenti Enel (nello stesso processo in cui viene condannato Bettino Craxi), nonché per le presunte irregolarità relative agli appalti per la strada Ofantina, dove è coimputato con il Dc Angelo Sanza, nel settembre del ’94 Paolo Pizzarotti saldo il conto di Malpensa 2000, concordando coi giudici della sesta sezione penale di Milano una pena di un anno e un mese, oltre a 560 milioni di risarcimento, per le tangenti pagate per aggiudicarsi i lavori.

IL 2 dicembre 1994 esce un articolo del settimanale "L’Espresso” dal titolo “Mani Pulite/Esclusivo: Il caso Concari : “Prandini, io ti accuso”.

Vi si parla della morte del costruttore Piero Concari avvenuta il 12 ottobre 1994. Emerge, tra l’altro, che il suddetto, quarantotto ore prima di suicidarsi proprio nel quartier generale della Impresa Pizzarotti, e cioè il 10 ottobre, aveva presentato al Sostituto Procuratore della Repubblica di Parma, dottor Francesco Saverio Brancaccio, un memoriale contenente pesanti bordate contro il costruttore Paolo Pizzarotti, contro l’ex Ministro dei Lavori Pubblici Giovanni Prandini e contro il suo proconsole in Emilia Franco Bonferroni.

Nel memoriale si faceva riferimento ad un brevetto che sarebbe stato messo a punto prima di morire dal Concari, brevetto che – a detta anche di un senatore leghista, Luigi Copercini, anche lui imprenditore parmense nel ramo delle fondamenta per costruzioni - “non poteva fare felici gli eventuali nemici o concorrenti di Concari, un uomo vecchio stampo che non amava le cose poco chiare".

Il memoriale verrà poi inviato da sette senatori della Lega Nord in allegato ad un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura, alla Procura Generale di Roma e al Ministero della Giustizia, “per evitare che cada nel dimenticatoio".

Nell’esposto si definisce tra l’altro la morte del Concari come “presunto suicidio”, quindi si spiegano le ragioni del dissesto delle sue società, ossia un intreccio politico affaristico che trova riscontro in numerose notizie di stampa, interrogazioni parlamentari e finanche sentenze di Tribunale; si precisa che la Soc. Pizzarotti S.p.A. e la Soc. Incisa S.p.A. sono capofila di numerosi lavori che si svolgono in tutta Italia e in particolare quelli relativi alla realizzazione, in concessione ANAS, della "Ghiare-Bertorella" più volte citata negli appunti dell’imprenditore scomparso; si afferma che è di dominio pubblico che il Sostituto procuratore Brancaccio ha assidue frequentazioni personali con il dottor Paolo Pizzarotti della omonima azienda e con il ragionier Beniamino Ciotti manager del gruppo Ligresti & Gavio e quindi in Parma referente della Incisa S.p.A. e che è pure di pubblico dominio tutta una serie di "fallimenti" sospetti di imprese e aziende parmigiane, che molti sostengono non riconducibili ad uno stato di sofferenza della economia e con procedure definite dagli stessi bene informati "sospette"; e si conclude proponendo l’intervento di ispettori ministeriali, ad evitare ogni sospetto di inquinamento ambientale .

Il Pizzarotti cita tutti quanti, senatori autori dell’esposto e giornalisti dell’Espresso per danni materiali, morali e biologici.

La Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato stabilirà poi nel gennaio 2000 che i senatori hanno esercitato funzioni inerenti al loro mandato parlamentare.
A movimentare ulteriormente gli anni ‘90 della Pizzarotti, e poi anche quelli seguenti, c’è il filone dei pentiti della camorra. Comincia Pasquale Galasso, che fa intuire un sottile gioco estorsivo orchestrato tra notabili democristiani, da una parte, e boss come Raffaele Cutolo, prima, e Carmine Alfieri, poi, dall’altra. La conferma arriva nel 2003, quando la Dia di Napoli si accorge che la camorra imprenditrice dei casalesi, con fortissimi interessi nell’edilizia, è riuscita a estorcere denaro anche a imprese di livello nazionale come la Pizzarotti e a imporre omertà a tecnici che lavorano in zone del Paese diverse da quelle tradizionalmente controllate dalle organizzazioni criminali. Si scopre che un ingegnere della Pizzarotti, Giovanni Negro, è stato schiaffeggiato da un camorrista così violentemente da riportare la perforazione di un timpano, mentre il responsabile locale della società è stato addirittura prelevato e portato al cospetto del boss Francesco Bidognetti (“Cicciotto e’ mezzanotte”), che impone di affidare i subappalti a imprese gradite alla camorra ( proprio in quel periodo il ministro Pietro Lunardi, amico di Pizzarotti e come lui nato nella patria dei prosciutti, diventa famoso per l’invito a «convivere con la mafia»).

Fosse diventata legge allora, la proposta recente del sottosegretario Mantovano di togliere l’appalto a chi non denuncia le ingerenze mafiose, sarebbe stata una bella lezione per i Pizzarotti di turno, sempre pronti a tutti compromessi.

E il bello deve ancora venire, c’è alle viste la madre di tutti gli appalti, quello del ponte sullo Stretto. L’uomo del Ponte è la vecchia cariatide della politica democristiana Giuseppe Zamberletti, messo a capo della società pubblica “Stretto di Messina SpA” , ma nello stesso tempo anche capo dell’IGI - Istituto Grandi Infrastrutture, una potente lobby travestita da centro di studi e ricerche in campo ingegneristico e infrastrutturale, nel cui consiglio di amministrazione ci sono gli esponenti di tutte le più grandi imprese di costruzioni italiane, Pizzarotti compreso, ed anche di determinati istituti bancari. In altre parole, l’ennesimo conflitto d’interessi : come non bastasse la più che probabile alleanza tra Cosa Nostra ed ‘Ndrangheta per spartirsi appalti e subappalti, magari coi soliti metodi e contando sulla solità omertà.





18 ottobre 2008

Il prototipo della società razzista



 
Egoisticamente concentrati sulle nostre vere o presunte – e mediaticamente esasperate - esigenze di sicurezza, non ci accorgiamo che stiamo coltivando in laboratorio un prototipo che ci darà molto filo da torcere per gli anni a venire.
La cavia utilizzata sempre più spesso per il rischioso esperimento ha le caratteristiche del ragazzo ghanese pestato al parco Falcone – Borsellino di Parma o del giovane di Milano sprangato a morte da due pregiudicati per un pacco di biscotti, oppure – allargando l’orizzonte - del giovane brasiliano scambiato per terrorista, braccato come in una spietata caccia alla volpe e ucciso qualche anno fa nella metropolitana di Londra: giovane, appunto, poco più che adolescente, nato o cresciuto in Italia, padrone della lingua italiana, ma di origine extracomunitaria e di solito dai caratteri somatici “particolari”, che magari vive già per conto suo la sua “diversità” – a volte più percepita che reale – con qualche disagio.
Ecco, col clima che s’è creato grazie alle parole d’ordine della “tolleranza zero” e del “no al buonismo” (dove si scambia per buonismo quello che invece è da noi solo disorganizzazione burocratica e incapacità di gestire con efficienza, oltre che correttamente e oculatamente, senza eccessi né di un tipo né dell’altro, le situazioni potenzialmente eversive della convivenza civile) costoro finiscono per sentirsi sempre più diversi, percependo la loro diversità come un ingiusto destino, una condanna o qualcosa del genere, preda quindi di un complesso di persecuzione che esaspera ai loro occhi ogni sia pur lontana e vaga parvenza di discriminazione o di emarginazione nei loro confronti.
Immaginiamo quindi cosa può provare un soggetto del genere se finisce vittima di una maldestra (come minimo) operazione di polizia come quella di Parma (che deve apparirgli come la prova provata, definitiva, della discriminazione razziale nei suoi confronti): rabbia, una grandissima rabbia, per il dolore fisico ma soprattutto per quello psicologico, che si accentuerebbe vieppiù se non seguisse alcuna punizione.
Si sta creando così un corto circuito, non c’è da meravigliarsi se i soggetti a rischio comincino a circolare col coltello in tasca, pronti a reagire violentemente ad ogni maldestro controllo di polizia, ma anche a manifestazioni più blande di discriminazione vera o presunta.
Delle vere e proprie mine vaganti, questo stiamo fabbricando per le vie delle nostre città (l’unica speranza, a questo punto, sono le redzore, le buone signore non più giovanissime che si approcciano a questi ragazzi senza inibizioni, quasi animate da quella volontà di integrazione, di pacificazione sociale che manca nei fatti ai livelli superiori).
Ma vogliamo che si incendino anche da noi le banlieue come a Parigi ed in tutta Francia qualche anno fa’ ?




20 ottobre 2008

Le città di provincia italiane: Parma



 

A suo tempo qualcuno (il giornalista Pino Corrias, fra gli altri, nel libro “Vicini da morire”) additò a concausa del delitto di Erba (quello dei coniugi diabolici sterminatori dei vicini) il contesto ambientale in cui queste vite tragicamente sole e inutili si esaltano ed esasperano: luoghi deprivati di senso, di storia, ridotti a puri dormitori, magari di lusso, tipo le famose MilanoDue e tre coi patetici laghetti e le ochette, luoghi dove il “buon" senso comune cataloga pigramente come “una brava persona” chiunque, con poco rispetto di se’ stesso e del proprio tempo di vita, trascorra senza soluzione di continuità le sue giornate tra il lavoro per dieci, dodici ore filate e la Tv in poltrona, fino a che non “da di matto” e ce lo ritroviamo “a sorpresa” nei panni di assatanato assassino.
 
Questa deprivazione di senso – dopo le metropoli (Milano è da tempo in preda ad una fortissima crisi identitaria) - coinvolge ormai anche gli abitanti delle città di piccole dimensioni, quelle che una volta si definivano “a misura d’uomo” o “isole felici “, città apparentemente tranquille ed operose come Parma (in cui, nell’ annus horribilis 2006, si registrano quattro omicidi efferati, tra cui quello del piccolo Tommy di soli sei mesi d’età e di una ragazzina di sedici anni massacrata con centinaia di coltellate) o la vicina Brescia (dove nell’arco di poco più di 15 giorni, dall’11 al 28 agosto 2006, si verificano ben sette omicidi), nelle quali non a caso si sono verificate ultimamente – di preferenza – queste mattanze.
 
E questo non solo per la presenza sempre più massiccia di “stranieri” (circa nove su cento è il rapporto nella ex città “ducale”, e diciassette su cento a Brescia, la più alta media d’Italia). Già prima che arrivassero , l’impronta decisiva della vita solidale dei borghi si era persa nei microcosmi unifamiliari; come quella dei vari punti d’aggregazione non corporativa (non c’è osmosi fra i vari gruppi e gruppetti, anzi una chiusura sempre più netta agli “estranei”, con rigide regole di accesso).

Così la trama del commercio “popolare”, per rezdore di poche pretese vogliose non solo di shopping compulsivo, viene spazzata via da una “centrocommercializzazione” in stile anglosassone che oltretutto moltiplica il traffico d’accesso.
 
Così il territorio agricolo della celebrata Food Valley - dove non a caso gli eredi dell’ex sindaco Ubaldi, l’inventore della città cantiere, che governano il Comune all’insegna di calce e mattoni, trovano ora una sponda nel ricandidatosi presidente democratico della provincia, Bernazzoli per un’embrasse nous cementizio - viene avviato gradualmente alla totale cementizzazione, prevista di questo passo a metà secolo.
 
Persino lo skyline della città viene violentato da opere fuori scala come il ponte di Calatrava ad ovest o la futura metropolitana. E intanto si cerca di far fuori le memorie residue di una città cui già agli inizi del Novecento furono sottratte le spettacolari mura, identiche a quelle che fanno la fortuna turistica di città “gemelle” come Lucca, trasformando in albergo, negozi e residence l’Ospedale Vecchio, palazzo che da ottocento anni veglia sulla città, sede dell’archivio che raccoglie i secoli di un ducato e carte di scrittori, storici e poeti come Attilio Bertolucci. Nel frattempo, il mito della Pechino d’Italia è sempre più insidiato da una milanesizzazione forzata del traffico.
 
Ai governanti di Parma tutto questo, compresi i fatti eclatanti dell’anno horribilis 2006, così come per altro verso l’exploit della litigiosità giudiziaria condominiale segnalata dalle cancellerie, forse un effetto indotto dei fenomeni di cui sopra, lascia indifferenti . A loro interessa solo – come si espresse a suo tempo l’Ubaldi – “evitare che Parma diventi solo il buen retiro dei pensionati" (ma non risulta che Parma possa ambire a diventare una novella Saint-Tropez ed il Lungoparma la Costa Azzurra).



 22 ottobre 2008

Beneficenza for profit


 
Intorno alla cosiddetta “beneficenza” fiorisce un business che nulla ha da invidiare, in termini di fatturato, mezzi ed operatori a quello delle maggiori imprese nazionali.
 
La corporazione dei professionisti della caccia all’obolo s’è infatti organizzata su scala industriale: in Parma ci sono decine di ditte la cui unica ragione sociale è spillare quattrini al prossimo in nome di invalidi, malati, moribondi, alcolisti o drogati in via di redenzione, bimbi e cani abbandonati, alluvionati, mutilati di guerra etc. etc.: una lista suscettibile di infinite variazioni sul tema.
Mettere su quest’impresa di questo tipo non è affatto dispendioso: basta un localino, un paio di telefoniste possibilmente dalla voce suadente ed un solerte fattorino incaricato del ritiro a domicilio del denaro.
 
La modalità adottata di preferenza è quella dello spettacolino con artisti non di primissimo piano organizzato in qualche sala parrocchiale per conto di qualcuna delle infinite sigle del settore (che prestano il loro “marchio” per modiche cifre): l’offerta – in questo modo – sarà più consistente, anche se il beneficiante difficilmente si recherà in sala per assistere alla messa in scena – nella data indicata sul biglietto, collocata ovviamente in prossimità della fine della campagna di raccolta.
 
Alla fine dei conti, buona parte del “raccolto” finirà nell’ordine: al titolare della ditta, alle telefoniste, al fattorino o fattorini (che di regola prendono l’un per cento di quanto raccolgono), agli “artisti”, a chi affitta il teatro e alla sigla “benefica”. Forse, se avanza qualcosa, qualche “sfortunato” avrà la sua parte.
Vere e proprie organizzazioni criminali, poi, arruolano a suon di botte minori, sordomuti e invalidi falsi o veri per l’accattonaggio. Curioso vedere qualcuno di questi veri e propri “artisti di strada” nel loro genere risalire con slancio insospettabile i mezzi pubblici alla fine delle loro penose ma assai realistiche esibizioni in centro.
 
Poi ci sono i dilettanti allo sbaraglio, a volte – a modo loro – “organizzati”, come i presunti ex – tossicodipendenti che, di solito fuori degli esercizi commerciali, penna alla mano, chiedono una firma inutile su una “petizione” fasulla ed all’incauto firmatario subito chiedono quattrini in nome di una fantomatica “comunità di recupero”.
 
Altro canale di “drenaggio” per ingenui o creduloni sono le boccettine che quasi ogni bar o esercizio commerciale che si rispetti ostenta sul proprio bancone in nome – di solito- di bimbi da operare con urgenza in America : si può scoprire che non c’è nessuna operazione da fare o non c’è alcun bimbo da aiutare (come per una bimba di nome Alice per la quale furono raccolti negli States l’equivalente di mille e duecento milioni di lire per un’operazione ai polmoni mai fatta).
 
Uno dei business più fiorenti è quello della raccolta di indumenti usati, da sempre terreno di scorribanda di professionisti del camioncino che si presentano a nome di associazioni benefiche fasulle con tanto di busta già pronta da riempire oppure svuotano i loro contenitori gialli (tra l’altro vere e proprie trappole mortali) collocati in posti strategici, mettiamo vicino ad un centro di raccolta di rifiuti ingombranti o nei cortili delle parrocchie. Se – come vantano costoro - quegli indumenti finissero davvero in parte nel terzo mondo, finirebbero solo di rovinare le industrie tessili locali (il ragazzino indiano o africano preferirà sempre le scarpe Nike usate che il prodotto locale non firmato).
 
Insomma, un business come altri, ma imbellettato da ragioni umanitarie, il che moltiplica a dismisura gli introiti (scriveva G.B.Shaw: “I ricchi fanno a beneficenza, ma anche la beneficenza fa ricchi”), ma anche l’intollerabilità di questo mercimonio.
 
Dunque, vigilate, gente. E se proprio volete elargire il vostro obolo, prima informatevi presso gli uffici dell’apposito assessorato comunale o all’Urp dell’USL, per sapere se il beneficiato ha dichiarato o registrato la propria ragione sociale (con tanto di sede e numero di telefono) e le attività per cui chiede soldi.

 






































Lunedì 17 novembre 2008


Agenzie (di illusioni) matrimoniali


 
Quella delle agenzie matrimoniali non è altro che l’ennesima variante sul tema : “Come spennare i soliti polli senza correre soverchi rischi di denuncia per truffa”.
 
L’agenzia, infatti, anche se si fregia indebitamente del titolo di “matrimoniale”, si obbliga semplicemente a fornire al cliente “il maggior numero possibile di contatti interpersonali" (la cosiddetta “obbligazione di mezzi”), non certo a trovargli a tutti i costi l’anima gemella o addirittura portarlo all’altare.
 
Nello stesso tempo però fa di tutto per illuderlo, a parte l’insegna fasulla: intanto, non sempre spiega preliminarmente e con la dovuta chiarezza al cliente che essa non garantisce affatto il risultato sperato, anzi non di rado lo incoraggia a firmare garantendogli che col suo fascino da latin lover non avrà problemi di sorta ad impalmare qualche bella squinzia; poi cerca di protrarre il contratto almeno fino a due anni (sperando che il cliente trovi al più presto l’anima gemella, chè in tal caso avrà realizzato il massimo profitto col minimo sforzo), spiegandogli che in questo modo avrà più possibilità di centrare il bersaglio.
 
Il cliente maschio che bussa a queste porte, dal canto suo – nonostante quello che si affannano a dirgli i furbastri che vi lavorano (“La gente si iscrive da noi perché sa di avere così maggiori possibilità di trovare qualcuno all’altezza delle sue aspettative" e menate del genere ) e che a volte può fargli piacere credere (per autoconsolazione) – è arrivato proprio alla frutta (per le donne è diverso, tra loro ci può essere davvero quella che cerca il “principe azzurro” delle fiabe, oppure la donna di una certà età e magari straniera che può trovare disdicevole girare per locali e luoghi pubblici in cerca del partito giusto; ma ci sono anche le agenzie che le donne le iscrivono gratis). Quindi, con tutta probabilità ha la mente obnubilata dal bisogno e disposto a firmare qualsiasi cosa gli si proponga.
 
Ma torniamo alla formula principe del contratto che vi si propina (che tra l’altro i furbastri non vi consentono di portare a casa per rifletterci sopra con calma magari con l’apporto di qualche avvocato): “L’agenzia s’impegna a promuovere relazioni sociali a favore del cliente al fine di procurargli il maggior numero possibile di contatti interpersonali". Come si vede, assoluta genericità e vaghezza degli impegni scritti col cliente (quanto a quelli verbali, non è raro sentirsi proporre mari e monti, al che uno si chiede: ma possibile che questa gente che si dice essere ricca, bella e di cultura sia ancora “single”?): non c’è nessuna indicazione precisa sul numero dei contatti “garantiti”, che ben possono dunque ridursi ad un numero assai esiguo a totale discrezione dell’agenzia, che avanzerà a sua giustificazione i motivi più vari, come ad esempio la difficoltà a reperire nel suo catalogo soggetti del tipo di quelli descritti dal cliente, anche se si tratta di richieste normalissime (giustificazione valida anche per spiegare la proposta di soggetti prive delle caratteristiche richieste: così si potrà ad es. proporre una donna con figli a chi ha chiesto di incontrare solo soggetti senza figli, spiegandogli che “è difficile trovare donne di una certa età senza figli “) e via di questo passo. 
In realtà, spesso si inviano al cliente schede di gente, donne in particolare, italiane soprattutto, che non hanno alcuna vera intenzione di fare nuove conoscenze, a meno che non capiti qualche Rockfeller magari piacente, e che si sono iscritte per hobby, specie se non si paga, ma quelli te le rifilano lo stesso, tanto per fare numero. 
Se quindi alla fine ti ritrovi un pugno di mosche in mano e provi a protestare, ti rispondono che sei tu che non ci sai fare o che hai pretese eccessive etc,etc.
Aggiungiamoci poi che queste agenzie, anche le più affermate, sono soggette ad un turn-over di personale davvero impressionante, et pour cause, trattandosi di un mestiere un po’ troppo particolare (l’Eliana Monti, ad esempio, una delle più radicate sul territorio, pare assuma soprattutto ragazze giovani, magari neolaureate in psicologia, che costano poco e fanno bella presenza, le quali accettano come primo lavoro, in mancanza d’altro, ma appena possono filano via per lavori un po’ più “dignitosi”).
Per cui uno si ritrova di mese in mese ad avere a che fare con personale diverso, con cui ogni volta deve riprendere il filo del discorso interrotto, fidando a questo punto soltanto nel buon Dio e nella buona volontà di chi gli sta di fronte (ma a torto, visto che costoro si sentono prima di tutto dipendenti impegnati ad accrescere il profitto del loro padrone e assai difficilmente prendono a cuore il problema del cliente, come pure sarebbe necessario in un mestiere del genere).
Poi ci sono le trappole diaboliche, del tipo ragazze dell’est, (in genere bellissime fotomodelle) che si iscrivono presso tutte le agenzie matrimoniali disponibili e vivono gestendo i numerosi incontri con il clienti (scelgono sempre i professionisti denarosi) delle agenzie matrimoniali.
Inutile dire che le agenzie che acconsentono a tenere il loro profilo all’interno del proprio catalogo sono ancora meno serie delle altre.
Quanto alle agenzie che propongono solo ragazze dell’est, spiattellando fotogallery di bellissime donne russe o ucraine o romene etc. da raggiungere a casa loro (così alle spese di iscrizione si aggiungono quelle del viaggio), ecco cosa accade di solito al malcapitato turista della speranza: si ritroverà nel migliore dei casi in una sala di aspetto a competere con un minimo di 20-30 clienti suoi connazionali (tanti sono gli italiani che mensilmente approdano ad ognuna di queste spiagge del desiderio insoddisfatto).
Un consiglio, dunque, a chi voglia a tutti i costi intraprendere questa strada assai perigliosa: passare prima da un’associazione di consumatori e farsi buttar giù un facsimile di contratto coi controfiocchi da opporre all’immancabile contratto-capestro della controparte.
Perché altrimenti non c’è uno straccio di legge che ci tuteli da queste vere e proprie “truffe legalizzate”.



24 novembre 2008

Le avventure di Colaninno

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Colaninno padre, il capo della cordata di imprenditori della neonata “Compagnia aerea italiana” (CAI) che ha messo le mani su quel che resta dell’Alitalia grazie unicamente ai nostri soldi - alla fine l’impresa voluta dal Berlusca per fare un favore agli amici degli amici, con la scusa dell’italianità della ex compagnia di bandiera che fa gonfiare il petto soprattutto ai suoi sodali aennini cooptati nel Popolo delle Libertà, ci costerà circa un miliardo di euro, di cui trecento già mollati ed altri settecento tra obbligazioni Alitalia detenute dal governo e non rimborsabili, e cosiddetti ammortizzatori sociali, quali prepensionamenti e cassa integrazione - è un altro esempio preclaro di manager (anzi di “magnager”, neologismo più appropriato per questi signori) che approda ad un ente pubblico dopo aver mostrato tutte le sue “qualità” (si fa per dire) in un altro ente parzialmente pubblico come la Telecom, che portò al dissesto e da cui spillò gratis a fine corsa - a titolo di liquidazione – una società immobiliare, la IMMSI, poi rivenduta a peso d’oro per comprare la Piaggio a prezzi di realizzo e piazzarla ai soliti fessi a due euro e mezzo ad azione (oggi ne vale molto meno).
 
Evidentemente, ha fatto scuola il caso eclatante e vergognoso dell’affossatore delle Ferrovie dello Stato, Giancarlo Cimoli, premiato nel 2003 proprio con la direzione dell’Alitalia, dove è arrivato a guadagnare un milione e 334.000 euro l’anno come presidente ed amministratore delegato – ottavo tra i manager pubblici più ricchi - mentre portava al collasso definitivo anche quest’ente e scappava via prima del diluvio con l’ennesima prebenda-premio.
 
Ma torniamo al Nostro eroe di giornata (il salvatore dell’Alitalia !) e alle sue “marachelle” in Telecom. Per cominciare, i capitali utilizzati per la sua acquisizione vennero scaricati sull’ azienda stessa sotto forma di debiti: uno "zaino" pesante che l’azzoppò da subito, per cui il Nostro pensò bene di rivalersi sui poveri utenti (per la serie “il telefono, la tua croce“).
 
Così, ad esempio, sotto la sua illuminata guida il servizio del 12 divenne a pagamento (ben tre scatti a botta). Vero che faceva schifo anche prima (impossibile – per dirne una - avere un numero di un ufficio che non sia quello del centralino), ma almeno i numeri telefonici li dava gratis. Poi fece un’infornata di personale avventizio che, sottopagato e schiavizzato, scaricava le sue ubbie sui malcapitati che chiamavano i cosiddetti call-center (bisogna dire però che questa è da sempre una prerogativa Telecom: non c’è forse Ente più o meno pubblico in Italia i cui addetti si comportino così scostumatamente con gli utenti: pare quasi che in Telecom si faccia a gara ad assumere i peggiori!).
 
Nel frattempo si sovvenzionava lautamente vendendo le sue azioni Telecom – appena quotata in Borsa - a prezzo gonfiato. Poi le azioni scendevano al loro reale valore di mercato e a rimetterci era il solito Pantalone, ossia investitori e piccoli risparmiatori (ma questo è un meccanismo largamente usato dai suddetti “magnager”).
 
La sua carriera in Telecom finisce bruscamente quando i suoi soci Gnutti e Consorte gliela sfilano da sotto il naso e la vendono a Tronchetti Provera. Pare che Colaninno volesse affiancare una grande rete televisiva all’azienda, ma “in Italia chi tocca la Tv muore” (e infatti Trinchetti si affretterà ad affossare La 7 nella culla: un vero peccato, perché quel che resta de La 7 dimostra tutte le sue potenzialità inespresse di valido concorrente del duopolio Rai-Mediaset).
 
Ma ecco Colaninno ripartire da Alitalia. Certo che se il buongiorno si vede dal mattino, forse è il caso che i potenziali passeggeri rifacciano le valigie e traslochino sotto altre bandiere.























sabato 20 dicembre 2008


Il riformismo delle tangenti

La destra, specie a partire dalle ultime tornate elettorali, politiche o amministrative che siano, suole presentarsi come una forza non condizionata da ideologismi ormai desueti.
 
Questo approccio era molto evidente, in particolare, nella campagna di Alemanno per il Campidoglio. Alemanno vinse, probabilmente, anche perché si accreditò come il pragmatico che, affrancato dai ceppi ideologici della sua parte politica, cerca di abbassare i toni del dibattito che la sinistra aveva pericolosamente elevato gridando ai “barbari in arrivo” o al torbido connubio tra “leghisti,fascisti e affaristi” (come se gli “affaristi” fossero tutti da una parte: purtroppo le vicende recenti che hanno coinvolto numerose giunte di centrosinistra dimostrano il contrario) , fino al patetico exploit di Ingrao: ”Io vi prego, vi scongiuro...” a petto del quale il “mi raccomando, nun votà Alemanno” letto sui muri di città appariva ben più diretto ed efficace. 
La deideologizzazione del dibattito politico è cosa buona e giusta se aiuta tutti a ragionare con la propria testa e non per schemi e partiti presi, a valutare le singole scelte politiche, per quanto provengano da parte avversa, con obiettività e senza pregiudizi di sorta.
 
Capisco che sarebbe una rivoluzione copernicana per un Paese abituato da secoli a dividersi tra guelfi e ghibellini e che, probabilmente, si diverte ancora in buona parte a schierarsi per l’uno o per l’altro dei contentendi televisivi, ognuno geloso detentore della verità assoluta e mai disponibile non dico ad accettare le tesi contrarie, ma nemmeno a ragionarci un attimo sopra (e difatti l’uno cerca di prevaricare l’altro, magari coprendone la voce per impedire agli utenti di ascoltare quel che dice; non per niente Omar Calabrese ha intitolato un suo saggio: “Come nella boxe. Lo spettacolo della politica in Tv".
Un divertimento fine a sé stesso, però, dal quale molti – immagino - si levino con una sensazione di inconcludenza ed inutilità di queste ipocrite esibizioni di anime belle, tutte piene di zelo e progetti per il bene pubblico, le stesse che – intercettate dai magistrati nel privato – mostrano di non sollevarsi d’un palmo dalla meschinità o peggio dei loro interessi personali e di bottega, per non parlare del linguaggio scurrile esibito, ad ulteriore conferma della loro bassezza morale (e forse il calo  degli ascolti Tv è una prova indiretta di questa crescente insofferenza: per dirne una, nell’ottobre 2005 RAI e Mediaset insieme avevano una penetrazione complessiva del 43,32 per cento della popolazione, scesa al 38,86 nel novembre di quest’anno). In ogni caso la deideologizzazione del dibattito politico nazionale sarebbe ben più apprezzabile ed apprezzata se non venisse sbandierata talvolta a sproposito, lasciando il sospetto di voler in realtà coprire corposi interessi o peggio malefatte inconfessabili.
 
Per fare un esempio che riguarda la politica internazionale ed in particolare la guerra in Irak, si può davvero liquidare come “ideologica” la tesi per cui “qualcuno” all’interno dell’amministrazione USA – e segnatamente il vicepresidente Dick Cheney, incidentalmente capo dell’Halliburton, la più grossa impresa di costruzioni del mondo – può aver fatto la semplice, banale (anche se cinica) considerazione economica per cui per poter lucrare sugli affari della ricostruzione, bisogna prima distruggerlo, il paese che si vuole ricostruire? Risultato impossibile se Saddam fosse stato eliminato in altro modo, magari con una di quelle operazioni chirurgiche che a suo tempo tolsero di mezzo personaggi di ben altro calibro.
 
Peggio ancora, la auspicata deideologizzazione perde credibilità se chi la promuove non si comporta di conseguenza.
 
E dove sono le scelte anti ideologiche di questa destra di governo che si muove solo a favore del “suo” popolo delle partite IVA abbassandone la già scarsa contribuzione fiscale con la revisione degli studi di settore e altri sbracamenti consimili, mentre nega agli altri persino la non trascendentale defiscalizzazione delle tredicesime, almeno di quelle meno ricche, pur propugnandone a parole maggiori consumi?

Sull’altro versante, ossia a sinistra , qualcuno sembra aver interpretato la svolta riformista come un allettante invito a scavalcare ogni residuo sentimento di “diversità”, ogni residua remora a copulare con l’affarismo più becero (“Ma smitizziamoli, questi parchi!”, invocava il sindaco di Firenze prima di lanciarsi a capofitto tra le braccia dell’ultima speculazione edilizia ligrestiana: ottanta ettari di verde spazzati via per far posto ad uno stadio di calcio).
 
Se il riformismo è questo, allora arridatece l’ideologia !







10 gennaio 2009


L’indipendenza dell’informazione... E il crack Parmalat?


 
Ferruccio De Bortoli, direttore del “Sole-24 Ore”, va in giro per conferenze sulla crisi finanziaria ed i suoi riflessi sull’economia reale e col suo solito aplomb chiosa: “E’ nelle situazioni di crisi che si evidenzia l’importanza di una stampa libera e indipendente …”.
 
Verrebbe da chiedergli: ma questo principio sacrosanto, ratificato pure nelle otto regole della “Carta dei doveri dei giornalisti economici” del 1993 (ritoccata nel 2005 e nel 2007) che a sua volta si richiamava alla direttiva comunitaria contro il market abuse, s’è mai tradotto in realtà?
 
Si direbbe piuttosto che in tutti i principali casi di crisi finanziarie del passato recente (nelle quali le banche hanno sempre giocato un ruolo di primo piano) , come Cirio, Parmalat, Italease, i giornalisti, comprese alcune cosiddette “grandi firme", si sono dimostrati nel migliore dei casi poco attenti a quel che accadeva, nel peggiore omertosi ed accondiscendenti, per non parlare dei casi eclatanti di giornalisti che ricattavano le imprese: soldi in cambio della cessazione di campagne di stampa ostili.
 
Insomma, come scrive Travaglio, anziché i cani di guardia del potere, come in America, questi al massimo hanno fatto i cani di compagnia o da riporto.
Per esempio: i giornalisti del gruppo editoriale che fa capo all’Unione Industriali di Parma, mentre la bolla speculativa Parmalat cresce nel corso degli anni ’80 e ’90 fino a raggiungere la cifra record di 15 miliardi di euro, 30.000 miliardi di lire, l’equivalente di due punti di PIL, non fanno una piega.
 
Nemmeno quando si comincia a vociferare apertamente di doppie fatturazioni, di operazioni spregiudicate, di fatica a rientrare dai prestiti bancari e intanto si susseguono i fallimenti industriali (ultimo quello dei prodotti della linea Mister Day).
 
Nemmeno quando, sei anni prima del crack del 2003, un piccolo ragioniere parmigiano, tale Mario Valla, in una consulenza per la Procura (che poi opportunamente insabbierà il tutto) denuncia : “La Parmalat è da considerarsi fallita senza l’aiuto delle banche".
 
E il loro giornale (la Gazzetta di Parma) continuerà a tacere persino quando, a metà dicembre 2003, ormai tutte le prime pagine dei quotidiani nazionali sono dedicate alla Parmalat (forse sperando che nessuno le leggesse).
 
Dopodiché, caduto Tanzi, sarà tutto un “dagli all’untore!”, un addossargli tutte le colpe per non far emergere il marcio tutt’attorno.
Ma, ripeto, quello dell’indipendenza della stampa dal potere economico è un problema nazionale.
 
Ogni tanto, per fortuna, qualche giornalista se ne ricorda.
 
Per esempio. Il 31 dicembre scorso sul Corsera i giornalisti del Cdr del giornale milanese così scrivono agli azionisti della RCS (banchieri, imprenditori, finanzieri e capitani d’azienda): “In una fase confusa e delicata, questa Redazione continua ad avere chiaro che il Corriere della Sera non è uno strumento nelle vostre mani  e vi ricorda ancora una volta che la missione di un giornale è di assicurare un’informazione libera, pluralista e, sempre e ovunque, indipendente”.
 
Chissà se questi buoni propositi serviranno in futuro a strappare qualche incauto risparmiatore dalle grinfie di bancarottieri e banchieri da strapazzo .



13 febbraio 2009


Se i giornalisti gridano al linciaggio


 
Ecco un piccolo campionario di quel che ci tocca leggere, un giorno sì e l’altro pure, in omaggio alla libertà di stampa, sul tragitto che sembra condurci inesorabilmente alla deriva morale.
 
Su un settimanale della free press parmigiana (che non ha solo i “venticinque lettori" del Manzoni, la sfogliano ben trenta lettori di giornali su cento) gli editoriali - che, come si sa, di solito sono affidati alla penna di personalità di spicco -, sono appannaggio di un tizio che, a quel che si sa, ha il solo background di “esperto in esplosivi” (tutto un programma) e diffonde il suo verbo con piglio messianico.
 
Ultimamente si è esibito in questo exploit: dopo aver sproloquiato sui casi – assai inquietanti, per la verità - di Luca Delfino e Angelo Izzo, si rivolge a quelli che chiama confidenzialmente gli “Amici della Polizia Penitenziaria” e li invita “a guardare da un’altra parte mentre qualche energumeno trasforma il Delfino e l’Izzo nella sua troietta".
 
Termina quindi con un “grazie di cuore a nome mio e di tutti gli italiani che ignorano la falsa demagogia buonista", dando per scontato evidentemente che gli “Amici” si adoperino immediatamente per accontentarlo, magari provvedendo in proprio.
 
E giù - immagino - gli applausi scroscianti di tutti i benpensanti come lui. Gli stessi che inneggiano sui quotidiani on-line, negli spazi dedicati ai commenti dei lettori, ai pestaggi in carcere di Aldo Cagna, l’assassino di Nadia Mantovani (per la morte annunciata della quale le forze dell’ordine hanno molto da rimproverarsi), e dei due romeni arrestati per lo stupro di Guidonia (e che alla radicale Rita Bernardini, che ha denunciato il fatto, hanno scritto via e-mail: “Fai schifo, ti auguro di essere stuprata da un branco di merde come quelle lì…” oppure «Spero veramente che un giorno le stuprino le sue figlie o qualche suo famigliare»).

Ma che differenza sostanziale c’è, sul piano morale, tra uno che stupra ed uno che incita al linciaggio? Nessuna. Quello che oggi incita al linciaggio sarà probabilmente lo stupratore o l’assassino di domani.
 
Questo è il livello di civiltà da terzo mondo a cui questi soggetti, intasando i buchi neri dei nuovi mass-media informativi, vorrebbero trascinarci (il trattamento dei detenuti è un infallibile metro di misura). Il loro ideale sono probabilmente le carceri brasiliane o turche, col loro corollario infinito di pestaggi, torture fisiche e psicologiche, scioperi della fame di protesta e punizioni.
 
C’è poi da chiedersi: ma questi linciatori di professione dove cavolo sono quando c’è bisogno di aiuto, di solidarietà tra cittadini, di un tessuto sociale civile che cerchi di prevenire crimini e abusi, invece di scagliarsi contro i criminali solo quando ormai sono stati già messi in condizione di non nuocere?

Per dirla tutta, anche i cosiddetti “maestri” del giornalismo talvolta lasciano a desiderare.
 
Sabato 24 gennaio ci è toccato leggere un confuso editoriale sul Corsera, di cui è stato pure direttore, dell’ineffabile Piero Ostellino (vecchia cariatide sempre più ideologicamente sodale al berlusconismo), in cui inneggia – udite! udite! - all’individualismo, suggerendolo ad Obama come ricetta per trarre l’America dalle secche della crisi sottraendola alle insidie di un eccessivo interventismo statale (in questo allineandosi perfettamente al suo mentore Berlusconi), a parere del quale le poderose misure anticrisi degli altri paesi europei sono state per l’appunto “eccessivamente interventiste”, per cui in Italia c’è da attendersi al massimo da questo governo qualche minestrina riscaldata come gli incentivi all’acquisto delle lavastoviglie o di auto ecologiche, senza però toccare gli ecologissimi SUV, la cui diffusione esponenziale ha decretato il definitivo trionfo della legge della giungla sulle nostre strade ai danni soprattutto di pedoni e motorini.
 
Ora, a leggere il dizionario della lingua italiana, l’individualismo è “la tendenza a svalutare gli interessi e le esigenze della collettività, in nome della propria personalità o indipendenza o egoismo”.
 
Dunque, non sembra proprio proponibile a chicchessia, men che meno da chi – in quanto italiano - dovrebbe ben conoscere gli effetti deleteri sul nostro vivere civile (o meglio incivile) di quello che è - com’è noto - uno dei peggiori vizi nazionali assieme alla propensione alla corruzione/concussione, a fregare il prossimo, alla disorganizzazione etc.
 
Effetti che vanno dagli immani quotidiani ingorghi metropolitani, frutto insieme dell’individualismo che non rinuncia all’auto nel paese più motorizzato del mondo e dell’insipienza degli amministratori dediti solo al loro “particulare”; agli egoismi assurdi (ognuno geloso di quel che sa) che tanto nuocciono all’efficienza del lavoro di gruppo sia nel privato che nel pubblico , o ancora alla proliferazione incontrollata di ridicoli partitucoli – in quella che era stata annunciata dai soliti coriferi del “nuovo che avanza” come l’era del bipartitismo più o meno perfetto (da quello di Ferrara a quello del convertito Magdi Allam e di tanti altri che rappresentano solo il loro ego smisurato), e via elencando.

Se questi sono gli esempi proposti dai cosiddetti maitre-a-penser, c’è poco da meravigliarsi che proliferino i tentativi più deleteri di imitazione .






 2 maggio 2009

Terremoti, alluvioni ed eruzioni: Italia "fabbrica di disastri"


 
Il problema della vulnerabilità idrogeologica, sismica e vulcanica del nostro territorio è da sempre il più trascurato in Italia: non ci si è mai preoccupati di consultare i geologi - pochissimi , tra l’altro, tanto che molti laureati in geologia fanno tutt’altro mestiere - per avere un esame dettagliato, ad esempio, del suolo su cui costruire , salvo stracciarsi le vesti e versare lacrime di coccodrillo all’indomani delle catastrofi annunziate che colpiscono regolarmente il paese, per poi dimenticarsene fino alla prossima.
Siamo – come scrive Giorgio Bocca – un paese che “fabbrica disastri”: 1951 alluvione del Polesine, tanto disastrosa da finire nei libri di scuola elementare; 1961 disastro del Vajont ; 1987 alluvione della Valtellina con 53 morti, migliaia di sfollati ed un danno di circa 4000 miliardi di lire; 1988 decine di frane e 2.000.000 di metri cubi di fango travolgono i comuni di Sarno, Quindici, Siano e Bracigliano con 160 morti, di cui 137 nella sola Sarno.
 
Il tutto con una spesa per la riparazione dei danni che nel solo decennio 1994-2004 è ammontata a 20.946 milioni di euro, senza risolvere strutturalmente niente , poiché ancora adesso il 50% degli italiani è a rischio. Una spesa assai maggiore di quanto costerebbe affrontare per tempo i problemi.
 
Persino i tanto vituperati Borboni di Napoli avevano fatto di meglio, approntando quantomeno un funzionale sistema di tutela del territorio campano, e – guardacaso - del Sarnese in particolare, dalle alluvioni: i c.d. Regi Lagni, dei particolari tipi di pozzi che drenavano molto efficacemente l’acqua in eccesso, da un bel pezzo abbandonati a se stessi e ormai non più funzionanti.
 
Negli anni 50, vi era un rito nelle scuole italiane: il giorno di S.Martino, l’11 Novembre, ogni scolaro piantava un alberello, un modo simbolico di opporsi al disboscamento selvaggio, che è però continuato ai giorni nostri, insieme a incendi dolosi o su commissione per recuperare terreni alla speculazione edilizia.
 
Aggiungasi lo scarsissimo controllo da parte delle autorità costituite sul modo di edificazione. A suo tempo fece scalpore quanto accaduto a Napoli a seguito del disastroso terremoto del Novembre 1980 (6° grado Scala Richter o 9° grado Scala Mercalli): un palazzo di 10 piani terminato appena l’anno prima crollò come un castello di carte senza fare vittime e si scoprì che era stato costruito con cemento disarmato, senza l’armatura metallica, o almeno le staffe di contenimento. Visto quanto successo a L’Aquila, non pare che da allora si siano intensificati i controlli. Quando il danno è fatto, poi, solitamente si manifesta una cronica confusione e dei ritardi inconcepibili nei soccorsi, specialmente se il disastro succede nei sacri giorni di festa.
 
Qualcosa si è fatto istituendo la Protezione Civile, che negli ultimissimi tempi è abbastanza migliorata sul piano dell’operatività ma molto resta ancora da fare.
Basta un temporale un po’ fuori della norma, per avere il massimo stato d’allerta per piene varie e possibili esondazioni, come nel caso ultimo del Tevere.
 
Siamo insomma il paese dell’emergenza continua, come ben evidenziato dall’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale ) che fornisce dati impressionanti:

1) i comuni interessati da frane sono ben 5596 ( 69% del totale) con rischio molto elevato per 2839 ; a tutto il 2006 i fenomeni franosi censiti sono 470 mila riguardanti un’area di 20 mila km quadrati. Ben 2/3 delle zone esposte a rischio interessano centri urbani, infrastrutture e aree produttive connesse allo sviluppo economico-sociale del paese, e le cause per lo più sono di origine antropica (umana).
 
Ad esempio nella zona di Sarno colpita nel 1998, già nel periodo 1841- 1939 si erano verificate 5 frane, ma il fenomeno aveva avuto una progressione impressionante nel secondo dopoguerra, con ben 36 eventi franosi, senza che alcuna autorità politica o tecnica prendesse provvedimenti.

2) Le aree a maggior rischio sismico, sempre secondo l’ISPRA, sono :

1-Settore friulano;
2-Dorsale appenninica centromeridionale;
3-Margine calabro tirrenico;
4-Sicilia sudorientale.

Il 69% dei comuni sono a rischio sismico (si salva solo la Sardegna, di epoca geologica terziaria rispetto al resto d’Italia di epoca quaternaria).

L’elenco dei terremoti esemplifica quanto sopra:

1908 - Terremoto di Messina con circa 100.000 morti;

1915- Terremoto in Abruzzo con 15.000 morti di cui circa 10.700 nell’epicentro
di Avezzano dove si salvarono solo in 300;

1930- Terremoto in Irpinia con 1425 morti;

1968- Terremoto nella valle del Belice in Sicilia con circa 250 morti;

1976- Terremoto in Friuli con circa 1000 morti;

1980- Terremoto in Irpinia con circa 3000 morti ;

1997- Terremoto in Umbria con morti, danneggiata tra l’altro la basilica di S. Francesco d’Assisi coi preziosi dipinti di Giotto e del suo maestro Cimabue;

2002-Terremoto nel Molise , tra l’altro una scuola crollata con 27 bambini come vittime;

2009-Terremoto in Abruzzo con circa 300 morti.

3) Esiste anche un’accentuata pericolosità vulcanica (dati ISPRA) in zone come:

1-Area vesuviana ;
2-Isola d’Ischia
3-Settore etneo;
4-Isole Eolie;
5-Colli Albani.

Il pericolo non risiede solo nell’attività vulcanica , ma in alcuni casi anche nell’eventuale attivazione di fenomeni gravitazionali con relative onde di maremoto. Eppure dopo il terremoto del 1980 si decise di realizzare 20.000 alloggi nella zona rossa sotto il Vesuvio e solo nel 2003 fu emanato un divieto edilizio che riguardava 250 km a rischio, cercando di indurre chi abitava sulle pendici del Vesuvio a trasferirsi, incentivandoli con la corresponsione di 30.000 Euro.
 
La gente pensò bene di incassare la somma ma di lasciare la casa ad altri, vanificando l’iniziativa: in tutto ci furono la miseria di 378 trasferiti. Attualmente un piano di evacuazione predisposto dallo Stato, in caso di attivazione vulcanica del Vesuvio, richiederebbe ben 12 giorni.


Una piccola digressione per capire come avvengono i terremoti.

Ecco le parti del sottosuolo fino al centro della terra:


CROSTA TERRESTRE (SILICATI E ROCCE CALCAREE) DI 70 CHILOMETRI 
MANTELLO SUPERIORE DI 400 CHILOMETRI

MANTELLO DI 3000 CHILOMETRI

NUCLEO ESTERNO DI 5000 CHILOMETRI
NUCLEO INTERNO(NICHEL E FERRO) DI 6371 CHILOMETRI

Un evento sismico si verifica all’interno della crosta terrestre ed è quasi sempre catastrofico se avviene nei primi 10 chilometri del sottosuolo,vista la quasi impossibilità di prevederlo sia in senso temporale che come ubicazione.

In Giappone, però , dopo il disastroso terremoto di Kobe nel 1995, sono stati inseriti a grande profondità nel sottosuolo circa 6000 sismometri per verificare tremolii dovuti alla collisione o più esattamente alla subduzione tra le placche tettoniche che originano i terremoti, un metodo che ha dato i suoi frutti con un notevole risparmio di vite umane nei successivi cataclismi.
 
Anche in California, nel cui sottosuolo c’è la famosa faglia di S. Andrea che per 1.300 Km va dal confine messicano verso il nord californiano, col progetto SAFOD ci si è attivati con trivellazioni di quasi 4 km per depositare i sismometri, i misuratori di tensione, e prelevare dei campioni di roccia e di fluidi da analizzare in superficie, valutando i cambiamenti di temperatura, la deformazione delle rocce e la pressione dei fluidi in tempo reale prima di un eventuale sisma.

Tutto ciò mentre 800 stazioni attraverso appositi satelliti misurano spostamenti del suolo anche di appena qualche centimetro.
 
In Italia la prima classificazione del rischio risale all’ordinanza della Protezione civile n.3274 del 2003 (le zone 3 e 4 sono quelle a basso rischio sismico), mentre la prima legge antisismica è del 1974 ma fino al 1980 era stato censito solo il 10 % dei comuni contro il 70% attuale.
 
Da noi il 50% delle abitazioni sono a rischio sismico, più esattamente:

1) 7,5 milioni di edifici privati su 11 milioni, di cui il 73 per cento senza alcuna protezione;
2) il 75% dei 75 mila edifici pubblici.
Naturalmente l’opera di prevenzione per essere efficace deve essere accompagnata dall’edificazione a norma di abitazioni pubbliche o private, senza agevolazioni o proroghe continue , dando incentivi sostanziosi non solo per la costruzione di abitazioni “ecologiche”, come finora, ma anche antisismiche.

Inutile dire che anche da questo punto di vista l’Italia, come del resto in molti altri settori della vita sociale, è nettamente deficitaria.

Le “Norme tecniche di costruzione” esistono dal 2005, ma di rinvio in rinvio - grazie alla potente corporazione dei costruttori - si è posticipato il tutto al primo luglio 2010 (per le abitazioni private).

Possibili soluzioni per le case antiche è l’incatenamento tra i muri o i contrafforti anche metro per metro, così come isolatori sismici e dissipatori di energia.
Il costo di tutto ciò è molto elevato, tale da reggere il confronto col valore di una nuova costruzione, ma sempre minore di quello di una ricostruzione a crollo avvenuto.

Altrove, al solito, sono stati più lungimiranti ed efficienti.

In California, dove si paventa il famoso Big One, con la distruzione di mezzo Stato, sono state stabilite norme severe , in base alle quali il venditore è obbligato ad informare l’acquirente dei punti deboli dell’immobile venduto e deve anche consegnargli la guida alla sicurezza compilata dalla Commissione Sicurezza sismica della California per tutti gli immobili costruiti prima del 1960.
 
Anche in Francia e Giappone, la sicurezza la paga il proprietario e si costruiscono molte abitazioni in legno, materiale più adatto a resistere agli eventi tellurici.
 
Dopo il disastro che ha distrutto Osaka 15 anni fa, alcuni fabbricati in Giappone sono costruiti con un materiale capace di resistere ad un sisma dell’8° grado della scala Richter, come il palazzo del municipio di Tokyo o di ondeggiare in entrambe le direzioni, come il grattacielo dell’Opera City alto 200 metri.
 
Nelle fondamenta si installano cuscinetti di gomma armata con piastre d’acciaio, mentre i tubi dell’acqua e dell’elettricità sono dotati di collegamenti a terra flessibili. Sul sito Internet del governo di Tokyo vi sono informazioni per accedere a piccoli sussidi per verifiche di resistenza o interventi di rafforzamento delle abitazioni, visto che da un rapporto del 1997 più di 1,6 milioni di case sono state costruite prima del 1981, anno in cui sono entrate in vigore le nuove norme antisismiche.
 
Anche in Giappone gli interventi su abitazioni già costruite sarebbero pari alla costruzione di nuove case con un nuovo aggravio del solo 5%.
 
Un altro mezzo per tutelarsi da calamità naturali, terremoti compresi, è l‘assicurazione (in genere si sottoscrive una polizza antincendio che è estesa anche a tutte le altre casistiche suindicate): esiste in moltissimi paesi quali Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Portogallo, Belgio, Germania, Spagna, Austria, Olanda, Svizzera, e Romania , ma non in Italia.
 
Un Istituto internazionale, lo Swiss Re, che riassicura le compagnie assicuratrici riporta questi dati: nel 2008 le assicurazioni hanno rimborsato 8 miliardi di dollari per l’uragano Gustav, 1,5 miliardi per la tempesta Emma nel Nord Europa, 1,3 miliardi per tempeste di neve in Cina.
 
 In Italia occorrerebbe una legge apposita per garantire l’obbligatorietà dell’assicurazione, viste le resistenze degli enti assicurativi, di certe associazioni di consumatori e di tanti politicanti da strapazzo


 11 marzo 2009 -

Car-sharing  : luci ed ombre di un servizio per l’ecologia

Car-sharing luci ed ombre di un serizio per l'ecologia
Com’è noto, per rispettare Kyoto (meno 6,5 % di emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 1990 nel periodo 2008 – 2012) , oltre all’efficienza energetica e alle fonti rinnovabili, bisogna puntare sulla mobilità sostenibile.
Il car sharing (ovvero l’auto condivisa in italiano, lingua purtroppo in disuso ormai da tempo nel suo paese d’origine, visto il proliferare abnorme di termini stranieri) nasce in quest’ottica .
 
Ecco la tabella delle città dove il servizio è disponibile (dati riferiti a dicembre 2008):
Città
Inizio
Auto
Utenti
Parcheggi

Bologna
Ago. 2002
43
1.049
25
Firenze
Apr. 2005
28
1.096
22
Genova
Lug. 2004
75
1.851
49
Milano
Sett. 2001
70
1.873
44
Modena
Apr. 2003
18
280
14
Parma
Feb. 2007
21
327
12
Rimini
Estate 2002* Mar.2003
5
60
5
Roma
Mar. 2005
41
1.041
25
Torino
Nov. 2002
100
2.000
70
Venezia
Ago. 2002
50
2.851
11
Totale

451
12.428
27






Nelle intenzioni dei promotori, ossia il Ministero dell’Ambiente, si tratta di un “servizio di mobilità pubblica urbana integrativo al trasporto pubblico “ con due obiettivi generali:
 
a) diminuire – si presume in modo non irrilevante - il numero di veicoli circolanti nelle aree urbane e, quindi, decongestionare il traffico cittadino, nonché ridurre la superficie di spazio pubblico per la sosta, da utilizzare per altri scopi;

b) soddisfare anche scopi di tutela ambientale, grazie alla riduzione dell’inquinamento atmosferico cittadino e dei consumi energetici (i veicoli adibiti al servizio devono rispettare i limiti fissati dall’Unione Europea di consumo di carburante ed emissioni inquinanti, nonché di sicurezza). Sono obiettivi importanti – se realizzati - per una migliore vivibilità della città, tali da giustificare anche una gestione in deficit. Tre sono – o dovrebbero essere - le carte vincenti del car-sharing per attrarre il possessore d’auto e convincere chi l’auto non ce l’ha ancora a non farsi venire l’uzzolo di comprarsela:
 
1) un notevole risparmio rispetto ai costi fissi di esercizio di un’autovettura di proprietà (“l’importo delle tariffe deve essere tale da rendere nettamente vantaggioso per l’utente l’uso delle autovetture del Car Sharing rispetto a quelle di proprietà “);
 
2) una maggiore flessibilità e comodità rispetto al mezzo pubblico (l’utente ha la possibilità di utilizzare un’autovettura per periodi di tempo anche limitati e ovviamente per effettuare il percorso e le soste che più gli aggradano);
 
3) privilegi come quelli di parcheggi esclusivi localizzati sulla viabilità pubblica, nonché di accesso a corsie riservate ai mezzi di trasporto pubblico e alle Zone a Traffico Limitato.
 
Vediamo se queste condizioni, e specialmente la prima che è quella decisiva, sono rispettate in concreto. Prendiamo ad esempio il caso di Roma, dove il car sharing è stato avviato nel 2005 nell’area centrale.
 
A) I costi . Si paga una tariffa fissa di abbonamento di 100 euro (150 euro se l’utilizza tutta la famiglia, e se ne può fare uno “di prova” di 3 mesi per 40 euro), più le tariffe variabili di utilizzo (orarie + chilometriche in funzione del veicolo utilizzato), che vanno da 1,80 euro ad ora per una Panda a 2,40 euro per una Multipla, e da un minimo di trenta centesimi a km per una Panda ad un massimo di 40 centesimi a km per un Ducato. Sono costi in ogni caso decisamente superiori al costo di utilizzo di un’auto di proprietà (che ovviamente ha costi fissi molto alti, a partire dal costo di acquisto). Quanto all’autonoleggio “normale”, per un weekend con un chilometraggio massimo di 400 km spendi tra gli 88 euro di Maggiore e i 107 di Europcar, più il costo del rifornimento più 15 euro. Mettiamo che ti fai tutti i 400 km consumando 20 litri (calcolando venti chilometri a litro): spendi alla fine all’incirca 88 + 23 + 15= 126 euro. Se utilizzi il car sharing per 400 km, senza considerare i 120 euro di abbonamento, spendi come minimo 400 per trenta centesimi (cioè 120 euro), più quarantotto ore per 1,80 euro (86,40 euro) = 206, 40 euro, cioè ottanta euro in più.
 B) La fruibilità del servizio. Difficile, a volte, trovare libera la linea telefonica di prenotazione, o trovare l’auto desiderata nel periodo desiderato e nel luogo desiderato o trovare materialmente l’auto prenotata (l’auto c’è ma non nel suo parcheggio e se si prenota l’uso da internet, non viene segnalato il "fuori stallo") o – la cosa forse più seccante - parcheggiare l’auto al rientro negli appositi stalli di sosta regolarmente occupati dai soliti furbi etc. (così ti tocca chiamare il call center, sperando che risponda subito, sennò c’è il rischio di ritrovarsi addebitati a fine mese altri 25 euro di multa per ritardo nella consegna, e segnalare il parcheggio occupato, poi cercartene un altro…).
 Con l’autonoleggio normale puoi anche lasciare l’auto in un’altra città (paghi però come minimo trentanove euro in più) . Però non hai la comodità di prendere l’auto a tutte le ore utilizzando la smart card (che purtroppo si smagnetizza abbastanza facilmente).
 Se poi uno becca una contravvenzione col car-sharing, l’iter burocratico di notifica è tale che alla fine, per una multa, mettiamo, di 36 euro per sosta vietata, ci si ritrova a pagare, con le spese di notifica prima alla società proprietaria delle autovetture, poi al gestore del car-sharing che la smista al malcapitato, ben venticinque euro in più .
 Aggiungasi che i tanto decantati vantaggi del servizio (tipo la possibilità di entrare nelle ZTL) svaniscono appena si superano i confini cittadini.
 Insomma, tra costi non economicissimi , falle nella gestione e vessazioni all’utente, uno dopo un po’ di car sharing rischia di averne già abbastanza. Ma il vero buco nero sono i costi. Se, anziché fornire un servizio di pubblica utilità e con tutti crismi, si punta soprattutto a far quadrare i conti, la cosa si ritorcerà contro i suoi autori. Perché, che senso ha un car sharing azzoppato da una scarsa diffusione.


























 25 marzo 2009

Troppi soldi ai partiti: sei un demagogo!

Troppi soldi ai partiti: sei un demagogo!
Alle ultime elezioni politiche dell’aprile 2008 l’elettorato ha dato chiari segni di insofferenza verso l’ affollata e rissosa arena dei partiti, spingendo per la prima volta verso un sistema tendenzialmente bipolare (circa l’85 per cento dei voti è andato alle due coalizioni principali, le briciole ai restanti 25 partiti).
Sono le avvisaglie di qualcosa di assolutamente rivoluzionario in un paese da sempre lontanissimo dall’Europa, dove persino nei paesi come l’Austria con proporzionale secca (senza né premio di maggioranza nè sbarramento del 4 per cento come in Italia), gli elettori votano da sempre i candidati di due o al massimo tre partiti (non coalizioni di partiti).
 Non per niente si diceva: due inglesi quattro pub, due francesi quattro amanti, due italiani quattro partiti...
 La strada comunque è ancora lunga ed accidentata : se non ci fosse stato il provvidenziale sbarramento del 4 per cento, avremmo visto probabilmente in Parlamento l’elefantino Ferrara con la sua improbabile “Associazione difesa della vita” o qualche testa rasata di “Forza nuova” o magari qualche “Grillo parlante” dell’omonima lista, ed a quel punto il circo Barnum sarebbe stato al completo . 
In ogni caso nel Parlamento Italiano ci sono tuttora i rappresentanti di questi micro partiti di cui forse si potrebbe anche fare a meno, tanto più che il sistema elettorale nostrano (di fatto uninominale secco in cui anche un voto può essere decisivo ) dà loro agio di ricattare le coalizioni di cui fanno parte chiedendo seggi sicuri:
 
· Movimento per l’Autonomia (nelle liste del PdL)
· Radicali Italiani (nelle liste del PD)
· Partito Repubblicano Italiano (nelle liste del PdL)
· Movimento Repubblicani Europei (nelle liste del PD)
 
Nel frattempo, le due maggiori coalizioni, PDL e PD, per quanto generosamente premiate dagli elettori, sono ancora in mezzo al guado: la prima – praticamente fondata sul predellino di un’auto - deve ancora andare alla prova della capacità di compattare le sue varie anime, per quanto agevolata dalla presenza di un padre-padrone; la seconda ci annaspa proprio, nel guado, dopo l’uscita di scena del suo duce, colui che, appena insediato al vertice, dichiarò che “il PD non avrà mai delle correnti”, salvo essere subito dopo investito da una quantità di spifferi tale da dover far fagotto per altri lidi , magari africani.
A proposito, mentre Berlusconi a suo tempo riuscì a perdere di fila tutte le tornate amministrative dal 2001 al 2006 (quand’era al governo) , per non parlare di quelle politiche del ’96 e del 2006 e di tutti i suoi guai giudiziari, senza mai nemmeno sognarsi di dimettersi ( figuriamoci ! ) , a sinistra prima D’Alema poi Veltroni se ne sono andati a seguito di insuccessi nelle amministrative, al che viene da chiedersi se da quelle parti siano solo superiori moralmente o soprattutto fessi : domanda non peregrina, perché in politica l’ingenuità è un peccato mortale.
                Intanto, sempre in spregio delle linea di tendenza che l’elettorato ha provato a tracciare con le elezioni del 2008, c’è sempre qualche politico o aspirante pronto a tirar ancora fuori dal cilindro il nuovo “partitino” da prefisso telefonico destinato a rappresentare soprattutto l’ego smisurato del suo fondatore (oltre che a rastrellare quote delle generose prebende di cui sopra , che non si negano a nessuno).
 Tipo i “Protagonisti per l’Europa Cristiana" dell’ex vicedirettore del Corriere della Sera ed ex mussulmano Magdi Allam, che – non contento della consacrazione papale urbi et orbi del suo passaggio alla nuova fede col battesimo in San Pietro durante la Veglia pasquale - ha deciso di fare una bandiera di quella sua privatissima decisione.
                Oppure a riverniciare a nuovo vecchi partiti come il partito liberale di De Luca che , dopo il modesto 0,3 per cento del 2008, s’è scelto come vice il giornalista Guzzanti per il quale il nuovo Pl “deve rivolgersi ai cittadini delusi da un bipolarismo fasullo e illiberale”.
          Intanto a sinistra del Pd , dopo la scissione vendoliana dal partito di Rifondazione comunista (se ne sentiva proprio il bisogno, data la scarsità di micro-formazioni politiche in quell’area), c’è voluta l’approvazione della soglia di sbarramento al Parlamento europeo per indurre qualcuno tra i rissosi cespugli della sinistra radicale (Verdi, Movimento per la Sinistra, Partito Socialista, Sinistra Democratica, Unire la Sinistra ) a riunirsi nell’alleanza di “Sinistra e libertà”: ad occhio e croce, l’esito quasi miracoloso di un titanico sforzo contro natura per chi milita in quell’area.
Un vero professionista della trasmigrazione perpetua, poi, il corpulento ex-tutto senatore Sergio De Gregorio, sta lanciando alla grande per ogni dove la sua fondazione-partito “Italiani nel mondo” (vedasi ad esempio i cartelloni giganti per le strade di Roma).
A Parma, intanto, hanno pensato bene di riesumare la lista civica “Civiltà parmigiana” (affossata a suo tempo dal suo fondatore, l’ex sindaco Ubaldi) , col nome – guarda un po’ che fantasia – di “ Civiltà per Parma “. L’evento, che esiterei a definire epocale, è stato salutato dal sindaco Vignali, nato da una costola di Ubaldi, con un messaggio celebrativo inneggiante al “civismo” , il tutto proprio all’indomani del rimaneggiamento in senso pidiellino (da PDL) della sua giunta, che ha indotto molti a dichiarare il deprofundis per l’esperienza “civica” a Parma.
                  Uno potrebbe a questo punto chiedersi: visto i chiari segnali di volontà di semplificazione del quadro politico inviati dall’elettorato, come mai questi non se la danno per intesa? Innanzitutto, non bisogna dimenticare che questi politici o aspiranti tali sono di solito completamente autoreferenziali , avulsi dal contesto generale , tanto più da quando – grazie al porcellum che ha abolito le preferenze - accedono alle liste elettorali per cooptazione dall’alto.
                  La seconda spiegazione possibile è rappresentato dalle leggi che regolano l’intero sistema, fatte apposta per perpetuarlo ad libitum: un referendum aveva abolito nel 1993 il finanziamento pubblico ai partiti e quelli se lo sono praticamente reinventati nel 1999 ribattezzandolo “rimborso elettorale” anche se di rimborso – come ha rilevato la Corte dei Conti – non ha nulla, giacché supera ampiamente le spese elettorali effettive dei partiti.
         Infatti, prima è decollato da ottocento lire a cinque euro ad elettore (nel 2008 tra Camera e Senato si sono spartiti ben 407 milioni e rotti di euro, una cifra che pur con la sforbiciata non trascendentale del 10 per cento da parte del governo Prodi in omaggio al libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, è superiore a quella che ogni anno lo Stato destina alla cooperazione internazionale, calcolata oltretutto sulla base non di chi va a votare, ma di tutti gli aventi diritto, per cui anche chi non vota contribuisce ad arricchire quei partiti per cui non mostra di nutrire alcuna simpatia).
               Poi nel 2006 è stato previsto il rimborso non solo a chi prende appena l’un per cento dei voti (come la Sinistra Arcobaleno), ma persino a chi non arriva manco a questa soglia minima o non si è nemmeno presentato alle ultime elezioni , ma solo a quelle precedenti ed ha avuto qualche eletto (ben ventuno partitucoli , tra cui il PSI di Boselli e l’Udeur di Mastella): questi ultimi, quindi, dopo lo scioglimento anticipato delle Camere del 2008, continuano a prendere soldi fino al 2011 (data in cui quella legislatura sarebbe venuta a conclusione naturale) ! Mentre quelli grandi si trovano a prendere un doppio importo simultaneo ( anche Di Pietro che fa il moralizzatore s’è preso i suoi bravi rimborsi gonfiati : 18 milioni circa).
             Insomma, siamo alle solite: questi se la suonano e se la cantano, si fanno delle leggi di cui sono i principali beneficiari, sono i più cari d’Europa, ci costano 200 milioni di euro all’anno, contro gli 80 dei francesi, che non danno un euro a chi non supera il 5 per cento, ed i 130 dei tedeschi, ogni tanto si danno pure l’aumento, votandolo naturalmente all’unanimità, come nel 2006 (circa 1.135,00 euro in più al mese), e a chi li contesta riservano subito il classico anatema scacciadiavoli: demagogo!
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7 aprile 2009 –
Italia, la dura vita di un clochard
Italia, la dura vita di un clochard
Epifani ha detto al Circo Massimo che oltre 14 milioni di persone in Italia vivono con meno di mille euro al mese (la cosiddetta soglia di povertà). Per l’esattezza, sono 14 milioni e mezzo: due milioni e mezzo (tra dipendenti e autonomi) tra i 15 e i 40 anni e tre milioni e mezzo di ultraquarantenni guadagnano tra i 600 e i 900 euro al mese (la cosiddetta generazione mille euro). Cui vanno aggiunti gli otto milioni e mezzo di pensionati.

Tutta questa gente, insomma, viaggia nella zona grigia: basta un quid, la perdita del lavoro, qualche bicchiere di troppo, una separazione, la morte di una persona cara, e questi rischiano di finire per strada, di diventare cioè dei barboni (il cui numero difatti è in crescita soprattutto tra i giovani tra i 26 ed i trentacinque anni). Ed a quel punto è una rapida discesa agli inferi, ossia fuori dal contesto sociale, fuori da ogni visibilità, fuori da tutto, salvo qualche riga in cronaca nera (otto senzatetto morti a Milano, nella capitale economica d’Italia, nei primi due mesi dell’anno).

I barboni sono una razza a parte. Di solito niente a che vedere con quanti elemosinano per le strade ostentando a volte deformità immaginarie, come lo “storpio" che a Piacenza chiedeva l’obolo agli automobilisti in sosta ai semafori poggiandosi malamente alle stampelle, ma s’è dimostrato insolitamente rapido e scattante all’arrivo della polizia che poi l’ha arrestato per abuso della pubblica credulità (una cosa spiacevole, non c’è che dire: essere turlupinati, anche se da bisognosi, non piace a nessuno).

I clochard non chiedono l’elemosina, anzi non chiedono nulla, nemmeno un letto per dormire o una mensa per sfamarsi (e questo li rende tra l’altro invisi ai burocrati in carriera della beneficenza pelosa, quelli come li definisce Vittorino Andreoli, che operano nei loro begli uffici con tanto di segretarie, girano in macchine blindate ed hanno il filo diretto coi potenti). Soprattutto quando sono ormai sprofondati nell’emarginazione, diventano degli irriducibili che rifiutano ogni tipo di assistenza o ricovero. Bisognerebbe prenderli prima che questo avvenga, come si fa negli States (quarantamila homeless solo a New York, ma in diminuzione grazie a queste nuove strategie assistenziali): i volontari li avvicinano subito e gli offrono non solo un ricovero per la notte, ma anche sostegno psicologico, training, educazione, terapie e altri servizi per aiutarli a reinserirsi nella società (ma questo è più complicato che passargli coperte o minestre calde).

Un aiuto indiretto potrebbe venire dal Fondo per l’inclusione sociale, creato nel 2007 per favorire l’integrazione degli immigrati (molti barboni, specie se stranieri, vanno a rifugiarsi tra le comunità di Rom e Sinti). Purtroppo le risorse del Fondo sono scarse (non a caso la stessa Carta di Parma ne chiedeva il rifinanziamento) e comunque sottoutilizzate: solo € 2.636.892 finora spesi per quattro progetti presentati da altrettanti Comuni tra cui quello di Milano, dove ci sono ben 3863 homeless (per fare un confronto, in Spagna il governo ha speso in tutto 96 milioni di euro nel corso degli ultimi dieci anni, di cui 62 ottenuti dall’Unione europea a fronte di progetti validi di integrazione, contro il solo milioncino scarso ottenuto dall’Italia e gli effetti si vedono).

A Parma ci sono gli uni e gli altri, ovviamente, come dappertutto: gli elemosinanti ed i barboni. Né manca, tra i primi, quello dalla studiata camminata strascicata particolarmente commovente, che però zompetta con sorprendente agilità sul bus che lo riporta a casa nell’intervallo tra un’esibizione e l’altra. Ricordo di aver sentito parlare in passato, da uno che faceva la guardia giurata davanti ad una banca sotto i portici e ne aveva visti di tutti i colori, del cieco che se gli mettevi un bottone nel piattino ti tirava dietro una bestemmia e di altri poco ameni personaggi da commedia dell’arte. Poi ci sono i barboni, che non tendono la mano a chi passa, non fingono deformità inesistenti, al massimo tirano su un cartello che appoggiano al corpo mentre dormono, per non essere continuamente richiamati da chi ha voglia di dare.

Ad esempio, l’anziano polacco col cappellaccio in testa e l’aria affatto avvilita che si vede spesso dalle parti di via Garibaldi ed in ispecie all’ingresso della cappella dei Rossi: si direbbe, a guardarlo, che non se la passi poi tanto malaccio (ed a qualcuno fa pure invidia!). Un altro, di nome Pino, pugliese, apparentemente anziano, rientrava -al contrario del primo- nel cliché che vuole i barboni in buona parte afflitti da qualche forma di dipendenza (per lui, l’alcool) e di malattia mentale (circa il 50 per cento, secondo le statistiche). Lo incrociai un giorno in via D’Azeglio che non si reggeva in piedi, lo presi per mano e lo accompagnai alla Pubblica dietro via Bixio, dove lo misero a letto con qualche lamentela dicendo che "ci marciava". Mah! Nel frattempo m’aveva raccontato le sue peripezie (tra l’altro aveva avuto, diceva, un fratello deportato a Mathausen). Quando lo rincontravo, mi chiedeva l’obolo, ma con voce bassa e dimessa, quasi si vergognasse. Qualche volta glielo negavo, sapendo che sarebbe finito in qualche bettola. Ultimamente dava proprio di matto, andava in giro sbraitando e minacciando la gente. Insomma, pareva proprio alla frutta. Poveraccio.

In Italia, ed a Parma, più che di integrazione è tempo di repressione: Vignali & C. chiedevano maggiori poteri, Maroni glieli ha dati, ma almeno nel caso della multa da trecento euro per l’elemosina molesta (sulla base di chissà quali criteri), non si capisce bene a che pro, dato che ad occhio e croce il multato non pagherà mai, visto che è ridotto a fare il clochard. Non era sufficiente, come a Piacenza, perseguire l’elemosina truffaldina, che è già prevista come reato? Così, mentre i sindaci-sceriffi sprigionano la loro (scarsa) creatività, il popolo dei barboni cresce.



 14 aprile 2009 -

Palestina e Iraq: quando il mondo non impara dai propri errori

La coatio ad repetendum dei politici di ieri e di oggi.

Palestina e Iraq: quando il mondo non impara dai propri errori
La storia non si ripete.
Semplicemente le sue leggi fondamentali sono immutabili nei secoli.
E’ il nostro ristretto, breve orizzonte di mortali, la nostra mancanza di umiltà, che ci fa sembrare uniche, irripetibili le nostre modeste vicende contemporanee, che sono a ben vedere governate da quelle leggi eterne.
 
E’ rabbrividente ad esempio la coatio ad repetendum degli esseri umani in genere, i soli esseri viventi, dice un detto portoghese, capaci di inciampare due volte nella stessa pietra, cioè gli unici a non imparare nulla dall’esperienza o dal passato o storia che dir si voglia, laddove un qualsiasi animale eviterà sempre di ripetere un’esperienza spiacevole .
 
Ancora più rabbrividente, per gli immani effetti collaterali, la coazione a ripetere degli uomini politici, la tenacia con cui non solo cinici e spietati dittatori, ma anche esponenti di nazioni democratiche, e loro occasionali compagni di viaggio, ripercorrono a testa bassa e senza indugi sentieri irti ed impervi già lastricati di vittime e sangue, annunciando (in buona e talvolta in mala fede) di inseguire obiettivi “virtuosi” che tuttavia, anziché approssimarsi, si allontano inesorabilmente all’orizzonte (la nota dinamica della “eterogenesi dei fini” formulata per la prima volta da Giovambattista Vico che la concepiva come “dei momentanei ritorni indietro" sulla strada verso le “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, a cui nessuno più presta fede ).
 
Queste conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali, per una strana nemesi del destino, sembrano affliggere soprattutto i fautori più accesi della cosiddetta “realpolilitik (ma “affliggere” non è forse il termine esatto: costoro infatti si distinguono, oltre che per l’insofferenza per ogni istanza etica o idealistica, anche per la totale insensibilità alle conseguenze impreviste e solitamente assai dolorose delle loro scelte).
 Gli uomini politici americani sono da tempo in cima alla lista dei recidivi.
 Un ormai classico deja vu o, se vogliamo, di testarda coazione a ripetere si verificò con l’escalation militare americana in Vietnam a partire dalla fine degli anni Cinquanta.
 Gli Usa seguirono pari pari il copione dei francesi di pochi anni prima, andando incontro alla stessa sorte: impiegarono imponenti forze terrestri come se dovessero andare ad un improbabile scontro in campo aperto contro un nemico sfuggente come i guerriglieri vietcong, protetti da una impraticabile giungla. Risultato: la replica della disfatta francese di Dien Bien Fu (marzo-maggio 1954) e conseguente abbandono dell’Indocina.
 Per inciso, tra le forze agli ordini del generale Giap nel ’54 c’erano uomini appartenenti a varie etnie soggette in patria ai colonialisti occidentali, come gli algerini che appena sei mesi dopo misero in pratica nella loro terra la lezione appresa in Vietnam scatenando contro i francesi la battaglia d’Algeri, durata ben otto anni, fino al provvidenziale intervento di De Gaulle, per l’ottusa resistenza di chi, more solito, nulla aveva appreso dalla batosta del ’54: ovvero che qualunque movimento di guerriglia che si muova in un contesto difficile a lui noto, quale la giungla vietnamita o l’intrico delle viuzze della casbah d’Algeri, è destinato alla lunga ad avere la meglio contro un esercito tradizionale.
 Così fu già nei tempi biblici della lotta degli ebrei contro i cananei, si ripetè con la ribellione spagnola a Napoleone mai sconfitta in campo aperto e, più recentemente, con la tattica del mordi e fuggi dello sparuto contingente inglese all’inizio della guerra in Africa nella seconda guerra mondiale (sedicimila uomini che tennero in scacco i cinquecentomila italiani del generale Graziani fino a costringere i tedeschi ad intervenire in nostro soccorso con l’Afrika Korps di Rommel).
 Poi è stato il turno dei Bush padre e figlio, capaci di tornare, a distanza di pochi anni, a mettere le mani nel vespaio iracheno, dove hanno finito per impantanare la maggiore potenza militare del mondo, lasciandole come unica chance quella di riuscire a venirne fuori senza perdere troppo la faccia.
Mentre scendeva il sipario sui suoi otto anni di presidenza, Bush figlio ci ha regalato laormai inutile pantomimadel pentimento tardivo, svelando alla rete televisiva Abc che la caccia alle armi di distruzione di massa è il più grande rammarico della mia presidenza" (ma anche Blair, il suo fido e determinato alleato, adesso che è ridisceso dall’Olimpo ove evidentemente c’è carenza di ossigeno e ci si inebria del nettare degli dei, si trasforma in un umile cacadubbi, quei dubbi che invece non hanno avuto né hanno certi commentatori, al solito più realisti del re nel loro furore ideologico).
 Gli americani a questo punto potrebbero ripetergli la frase che pronunciò nel 1912 Karl Liebknecht contro il guerrafondaio kaiser Guglielmo II e la sua decisione di trascinare la Germania nella prima guerra mondiale, prodromo della seconda :  “Il nemico principale è nel nostro stesso paese”. 
Che è quanto pensano gli stessi americani: secondo un sondaggio della CBS del 2007 , il 51 per cento giudicava che la guerra in Irak avesse aumentato il numero dei terroristi in circolazione ( per il 21 per cento non aveva prodotto alcun risultato e solo il 17 per cento riteneva che avesse diminuito il numero dei terroristi).
Opinione condivisa persino dagli israeliani, oltre che da inglesi, canadesi e messicani: interpellati nel novembre 2006, avevano individuato in George W. Bush il nemico pubblico numero uno, più pericoloso e dannoso per la pace mondiale dei leader degli stati inseriti nel famoso "asse del male", l’iraniano Mahmoud Ahmadinejad e il nordcoreano Kim Jong-Il, e secondo solo a ad Osama bin Laden.
 
A maggior ragione gli iracheni, che dal marzo 2003 a tutto dicembre 2008 hanno contato non meno di 90.000 morti civili, parecchi dei quali uccisi dagli uomini delle cosiddette private military corporations quali la Blackwater (per non parlare dei militari sotto diverse uniformi, americani compresi, o dei traumi post bellici, il danno economico, i profughi…), se interpellati, gli avrebbero dato senza dubbio la palma.

Resta sempre valido l’antico detto (che rappresenta forse il più tragico paradosso della storia): se uccidi un uomo, sei un assassino; se ne uccidi migliaia o milioni, sei uno statista.

La pantomima bushiana ha avuto probabilmente per i nostri connazionali più anziani il sapore del dejà vu: allo stesso modo, non Mussolini, ma i suoi epigoni, i reduci di Salò, i nostalgici raccoltisi nel dopoguerra sotto le insegne del Movimento sociale, ammettevano fuor dai denti che sì, forse Mussolini aveva sbagliato ad entrare in guerra[1], fermo restando che tutto il resto del ventennio fosse stato perfetto e irreprensibile. Al che veniva naturale rispondere a costoro, ammesso e non concesso che avessero ragione: “ E scusate se è poco !” (l’errore ci era costato fra l’altro la bellezza di 450.000 morti, con un civile ogni cinque morti) .
 Così, sentiamo risuonare l’eco sinistro di frasi analoghe, pronunciate in altri tempi e luoghi, anche nelle parole pronunciate dal ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni (una donna !) all’indomani del pesantissimo ukase israeliano su Gaza costato la vita, tra gli altri, ad oltre quattrocento bimbi palestinesi: “I bambini morti? Io ho la coscienza a posto". Ma come si tacitano facilmente, certe coscienze!
 Ricapitoliamo la sequenza dei fatti. Nel settembre 2005 Israele lascia Gaza, dove poco più di ottomila coloni abitavano in case grandi e confortevoli mantenute coi ricchi sussidi dello Stato, mentre un milione e trecentomila palestinesi vivevano nella sporcizia, in mezzo ai rifiuti, in una miseria africana.
 
Probabilmente, Sharon si era reso conto dell’inutilità per Israele di mantenere a sue spese pochi coloni tra le rovine di Gaza, circondati dall’odio generale; meglio trasferirli nelle più fertili terre della West Bank, dove oltretutto il controllo di Israele è totale, grazie soprattutto ai collaborazionisti palestinesi armati e addestrati dagli USA. Nel gennaio dell’anno dopo i palestinesi votano in massa per la “parte sbagliata”, cioè per Hamas. Il 4 novembre 2008 Israele rompe la tregua conclusa nel luglio con Hamas, grazie alla mediazione egiziana, e compie un’incursione su Gaza che uccide sette palestinesi . Hamas risponde riprendendo a lanciare i suoi missili rudimentali.
 
A questo punto Israele attacca vantando il diritto di difendersi. Il che è giusto: uno Stato ha diritto di difendersi contro degli attacchi criminali, ma da ciò non segue che ha il diritto di farlo con la forza. I nazisti non avevano il diritto di usare la forza per difendersi dal terrorismo dei partigiani, l’assassinio di un funzionario dell’ambasciata tedesca a Parigi non giustifica la “notte dei cristalli" , ossia il pogrom condotto dai nazisti nella notte tra il 9 e 10 novembre 1938 in tutta la Germania in cui vennero uccise 91 persone, rase al suolo dal fuoco 267 sinagoghe, devastati 7500 negozi e circa 30 mila ebrei deportati nei campi di concentramento di Dachau, Buchenwald e Sachsenhause, così come il Bloody Sunday provocato dai soldati inglesi nella città irlandese di Derry il 30 gennaio 1972, quando il 1° Battaglione del Reggimento Paracadutisti aprì il fuoco contro una folla di manifestanti per i diritti civili, colpendone 26, non è giustificato dalle violenze dell’IRA.
 
A partire dal 27 dicembre Israele - che occupa dal 1967 tutta l’area circostante in barba alle varie risoluzioni dell’ONU - attacca da cielo, terra e mare (con caccia, elicotteri da combattimento, aerei teleguidati, navi da guerra, artiglieria, tank e quant’altro) l’area più popolosa della Terra dove si ammassano senza alcuna via di fuga 2500 persone a chilometro, metà delle quali hanno meno di 15 anni (in totale più di 750 mila bambini), già provate da diciotto mesi di blocco totale su cibo, medicine e combustibile, vietato dalla Convenzione di Ginevra.
 
Inevitabilmente, è una carneficina di civili (Hamas cinicamente si vanta di aver avuto solo 58 caduti e sembra ignorare i 1550 morti civili). Non a caso Richard Falk, il relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori Occupati palestinesi, evoca il trattamento nazista degli ebrei polacchi. (Per inciso, il partito laburista del ministro della difesa israeliano Ehud Barak, che cercava con questa operazione “meriti” per le prossime elezioni, ha preso sì qualche seggio in più rispetto ai sondaggi, ma è stato ugualmente estromesso dal potere. Ecco dunque un’altra costante della storia: quando la sinistra insegue la destra sul suo stesso terreno, gli elettori preferiscono giustamente votare per l’originale, e non per la copia. Fra l’altro, a dimostrazione che la storia non ha mai insegnato niente a nessuno, è risaputo che i bombardamenti ottengono il solo risultato di compattare ancora di più la popolazione attorno ai suoi governanti, gli unici a poter portare soccorso: fu cosi durante la seconda guerra mondiale coi bombardamenti a tappeto degli Alleati sulle città tedesche, Dresda in primo luogo, nonché coi bombardamenti tedeschi sulle città inglesi).
Ora, è vero che Hamas è una colossale palla al piede del processo di pace (ma Hamas è un parto degli apprendisti stregoni americani che volevano indebolire Al Fatah), che la sua scelta di non riconoscere Israele è indifendibile, che i suoi missili su Israele sono un crimine ed una follia forse spiegabile solo con la disperazione, ma altrettanto indifendibile è trarne spunto per giustificare tutto quello che fa o che non fa Israele (ad esempio una decente proposta di pace, non la ratifica della bantustanizzazione in atto dei territori palestini tramite le colonie ebraiche, che è il massimo che saputo finora proporre) e dare tutte le colpe ad Hamas, probabilmente per inconfessabili motivi di ostilità preconcetta contro arabi e palestinesi in particolare (molto diffusi in tempi di presunta guerra di civiltà e xenofobia dilagante anche da noi).
 Alcuni (per esempio Lorenzo Cremonini del Corsera) rimproverano poi ad Hamas di aver piazzato volutamente i suoi uomini a ridosso di case e palazzi (ma evidentemente anche di stazioni di polizia, campi profughi, sistemi idrici, ospedali, scuole compresa quella dell’ONU, etc, dato che anche questi obiettivi sono stati regolarmente bombardati), per suscitare la reazione di elicotteri e carri israeliani e consentirle di denunciare al mondo la morte di civili inermi (e sarebbe la stessa Hamas che fornisce servizi di assistenza sociosanitaria alla popolazione, ossia scuole, mense, ospedali, orfanotrofi ed altro, vera base della sua grande popolarità e del suo successo elettorale certificato da enti internazionali).
 
Più attendibile, per spiegare quant’è successo, quanto ha affermato un ex ufficiale dell’intelligence israeliana per il quale “in guerra, Hamas va considerata un tutt’uno, l’ala militare e quella sociale, per cui i suoi strumenti di controllo politico e sociale sono legittimi obiettivi quanto i nascondigli dei suoi missili”.

Del resto la stessa Livni ha ribadito che lo scopo di Israele (così come in Libano nel 2006 contro gli hezbollah) era una deterrenza a lungo termine, non solo infliggendo un pesante tributo di vittime ai militanti di Hamas, ma soprattutto facendo calare una duratura cappa di terrore sulla popolazione di Gaza, soprattutto i familiari e collaboratori dei militanti . Una simile logica “educativa” era alla base dell’attacco di Al Qaida all’America l’11 settembre, così come degli ukase nazisti sulla cittadina cecoslovacca di Lidice (completamente distrutta il 10 giugno
1942 per rappresaglia in seguito all’attentato delle forze partigiane ceche contro Reinhard Heydrich "Protettore del Reich" in Boemia e Moravia) o su quella francese di Oradour (642 vittime, tra cui 246 donne e 207 bambini rinchiusi in una chiesa poi data alle fiamme, in risposta alle iniziative della resistenza francese), ovvero della distruzione di Grozny ad opera di Putin e di molte altre operazioni analoghe.
 
Colpirne uno per educarne cento è anche un famoso detto di Mao Tze Tung ripreso dalle Brigate Rosse.
 
Se sono questi i rappresentanti “moderati” di Israele, c’è poco da sperare (non ha avuto, la Livni, un attimo di resipiscenza , dopo tante immagini scioccanti di bambini massacrati che oltretutto non aiutano certo a migliorare l‘immagine di Israele, nonostante l’opportunità politica di rifarsi una verginità da moderata nel nuovo partito Kadima, lei che proviene dalle fila della destra israeliana, ed in particolare dall’entourage di quel Sharon che è il responsabile morale della strage di Sabra e Chatila del 17 settembre del 1982 (3000 persone, a maggioranza donne e bambini, massacrati da 400 carnefici scelti fra il fior fiore del falangismo, cioè la destra “cristiana” libanese, penetrati nei due campi profughi in accordo con le truppe israeliane dirette dall’allora Ministro della Difesa) .
 
Ma forse ha ragione Josè Samarago quando dice che Israele vive all’ombra dell’Olocausto aspettandosi di essere perdonato per tutto quello che fa (e chi in effetti non avrebbe un attimo di perplessità prima di criticare Israele, ripensando a quello che questo popolo ha subito ed alla necessità di evitare assolutamente che qualcuno possa profittarne per riaccendere i fuochi dell’antisemitismo, che non è che un modo di declinare la discriminazione razziale verso popoli interi che è sempre in agguato (ne sentiamo un eco ai giorni nostri, nei confronti ad esempio dei rumeni in Italia, anche loro tutti “congenitamente violenti” come in passato si diceva soprattutto degli albanesi).
 Prima della Livni, un’altra donna, Madaleine Albright, Ministro degli Esteri dell’amministrazione Clinton, interpellata nel 1996 sui 5000 bambini irakeni uccisi ogni mese dell’embargo americano seguito alla prima guerra del Golfo, la definì con grande under statement "una scelta molto dura, ma pensiamo che ne valga la pena"! Forse la Livni ha studiato a questa scuola.
 Viene in mente, a proposito della Livni e della Albright, la frase pronunciata dal colonnello Tibbes all’indomani dello sgancio dal suo Enola Gay (era il nome della madre!) della bomba atomica su Hiroshima (6 agosto 1945) che polverizzò all’istante 86.000 esseri umani: “Certo che ho visto i cinegiornali e quei visi e quei corpi dilaniati, anche di bambini, certo, ma cosa volete che vi dica, che mi sento io responsabile di quelle immagini atroci? Nossignore, grazie a Dio io la notte dormo sonni tranquilli”.
 
Frase ancora più sinistra se si riflette alle valutazioni di tanti storici sull’inutilità ai fini bellici di quella carneficina ( il 12 luglio l’imperatore giapponese aveva già chiesto alla Russia di fare da intermediaria per trattare la resa incondizionata e Truman ne era a conoscenza , come risulta dal suo diario autografo, reso pubblico dopo gli anni `70)[2].
 Così il boia nazista Eichmann ( “un ometto da niente, terribilmente, banalmente, desolatamente “comune”, lo descrisse la Arendt) seguitò a ripetere durante il processo a Tel Aviv nel 1960 di “avere solo obbedito agli ordini" , organizzando il trasporto degli ebrei ai vari
campi di concentramento .
 Per Marco Revelli, all’origine di questa insensibilità c’è il cosiddetto “paradigma fordista” , ossia il lavoro organizzato su basi scientifiche proprio del “secolo breve”: questi “ uomini (e donne) senza qualità” , dai cupi comandanti dello sterminio nazista alla squadriglia del colonnello Tibbets agli "uomini di marmo" che posarono le pietre dell’inferno staliniano, poterono compiere i loro crimini bestiali in circostanze talida impedirgli quasi di accorgersi o sentire di agire per il male, concependo il loro come un lavoro da catena di montaggio, con tempi e metodi da fabbrica, con orari d’ufficio, successione delle fasi di lavorazione, divisione dei compiti da rispettare meticolosamente: nient’altro che strumenti di un’organizzazione lavorativa che a Dachau utilizzava corpi umani anziché petrolio o ferro come materia prima, ed a Hiroshima un micidiale carico di morte da gestire come in un normale business.
 Così, la Livni si concepisce evidentemente anche lei come un anello dell’inarrestabile, inossidabile ingranaggio, perverso ma ormai anche stucchevole, di azione e reazione in cui è precipitato da tempo il conflitto israelo-palestinese, dove tutti gli attori da una parte e dall’altra sembrano vittime di sé stessi, della loro irrefrenabile, insensata coatio ad repetendum (che, come spiega Freud, non è altro che una pulsione di morte, ossia una tendenza ancestrale di matrice autodistruttiva, il desiderio di ripetere al libitum esperienze spiacevoli con l’illusione di poterle finalmente controllare e rimuovere). 
 La conclusione di Revelli è che il luogo genetico del "mostruoso" non sta tanto nel delirio dell’homo ideologicus, quanto nella pratica smodata e incapace di limiti dell’homo faber.
Conclusione forse azzardata, giacchè l’homo ideologicus s’è mostrato capace di crimini che ben possono stare a petto di quelli citati.
Così il machiavellico “fine che giustifica i mezzi” soggiace alla frase arcinota di Mussolini: (“Mi serve  qualche migliaio di morti da gettare sul tavolo della pace”) quando ordina il 10 giugno 1940 l’inutile e vigliacco attacco alla Francia, appena dodici giorni prima che questa firmi la pace con la Germania. O di Mao-Tze Tung quando, in piena guerra fredda, a chi gli chiedeva se non temesse un attacco con l’atomica che avrebbe potuto fare anche 500 milioni di vittime tra i cinesi, rispose: “Tanto me ne resterebbero altri 500 milioni”. 
  …………
 Naturalmente, il meccanismo della coazione a ripetere ha potuto operare grazie alla totale impunità che gli Stati nazionali hanno sempre garantito e continuano tuttora a garantire, per mal riposto nazionalismo, anche ai più compromessi tra i loro esponenti politici, impedendo la concreta operatività della corte penale internazionale e talvolta annunciando ufficialmente di non voler dar corso al trattato istitutivo del 2002 già firmato ( è il caso degli USA).
Cosicché finora le sentenze di quella corte hanno riguardato solo le piccole potenze come il Sudan del semisconosciuto Bashir ( verso il quale per giunta gli Stati membri sono sati esentati dal prendere iniziative quali il ritiro degli ambasciatori ), lasciando assolutamente intonsi gli esponenti delle maggiori potenze, come l’americano Bush per la guerra in Irak, l’ israeliano Peres per i fatti di Gaza, il russo Putin per i fatti ceceni, i leaders cinesi per i massacri in Tibet .

Eppure non resta che aggrapparsi alla flebile speranza che un giorno il principio di ingerenza umanitaria, ossia il contributo internazionale alla pace e alla sicurezza dei popoli, venga gestito e con efficacia anzitutto sul piano giuridico, col diritto cioè anziché con la forza come è stato fatto finora .




[1]L’unico errore che ha commesso”, li si sentiva dire, ma non mancavano di sottolineare anche il contributo a loro dire determinante alla sconfitta da parte dei cosiddetti, fantomatici “traditori”, ignorando ovviamente gli errori pacchiani del loro mentore, quello che faceva a meno del radar, inventato da un ingegnere milanese, che fra l’altro aveva una portata doppia di quello utilizzato dagli inglesi con effetti determinanti per le loro vittorie in mare , “ perché di notte ci vedono solo i gatti, o che rinunciava alle portaerei “ perché tutta l’Italia è una portaerei” , e via cazzeggiando di questo passo .
[2] Ma si trovano e troveranno sempre volenterosi laudatori di queste carneficine in nome della “realpolitik”, il termine alla page con cui costoro celano il loro cinismo senza limiti. Così fu realpolitik , secondo costoro, quella che spinse nel 1999 il neofita del potere, Massimo D’Alema, inebriato di tanta gloria inattesa, dovuta ad irrepetibili eventi quali l’inopinata caduta del governo Prodi per mano di un estremista veterostalinista come Bertinotti, a dare il suo assenso in qualità di capo del governo italiano perché il nostro territorio fosse utilizzato come base di partenza per gli aerei che andavano a bombardare i serbi del Kosovo.
Vediamo. Tutto comincia nel febbraio 1997 con le prime azioni dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) , definite atti terroristici dagli Stati Uniti, seguite dalla brutale repressione serba.
All’inizio dell’estate del 1998, l’Uck assume il controllo di circa il 40% della provincia, scatenando un’ulteriore, ancora più violenta reazione da parte delle forze di sicurezza e dei gruppi paramilitari serbi, che prendono di mira la popolazione civile. In quell’anno si conteranno 2000 vittime, per lo più albanesi Il 20 marzo 1999, in previsione degli imminenti bombardamenti NATO, si ritirano gli osservatori internazionali dell’OSCE ( l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) e subito crescono a dismisura le atrocità, conseguenza prevedibilissima del ritiro e dei bombardamenti che tale ritiro annuncia, ed il numero di sfollati arriva in pochi giorni a quota 200.000. Nella notte tra il 24 e il 25 marzo 1999, la Nato scatena la sua offensiva aerea contro la Jugoslavia destinata a durare settantotto giorni. Risultato ? Finisce il calvario degli albanesi del Kosovo e dei rifugiati che possono far ritorno nelle proprie case, per lo più distrutte, e comincia quello dei serbi e degli zingari del Kosovo a loro volta costretti ad abbandonare la provincia dopo aver perso tutto .
Domanda : se gli osservatori non fossero stati ritirati, e magari rinforzati, e fossero stati portati avanti gli sforzi diplomatici, magari alternati con sanzioni di solito assai efficaci come l’embargo sul petrolio , si sarebbe avuto un risultato migliore? Poiché la Nato ha scartato tale opzione, non lo sapremo mai, ma niente fa pensare che le atrocità e le fughe sarebbero ugualmente aumentate ed in quella misura, e che i civili serbi sarebbero stati vittima a loro volta di pulizia etnica ( ma forse per qualcuno i civili serbi non sono altrettanto degni di considerazione degli albanesi ). 
Tanto più che sul terreno c’erano due proposte di pace : l’ultimatum di Rambouillet, cui però in extremis furono aggiunti di soppiatto degli allegati che resero di fatto il rifiuto serbo ineluttabile , quasi a voler sabotare la pace , e la risoluzione della stessa Assemblea nazionale serba, rimasta praticamente segreta, che condannava il ritiro degli osservatori dell’Osce e chiedeva all’Onu e all’Osce di adoperarsi per una soluzione diplomatica attraverso negoziati "con la prospettiva di arrivare ad un accordo politico sulla sostanziale autonomia [del Kosovo], che garantisca uguali diritti a tutti i cittadini e a tutte le comunità etniche nel rispetto della Jugoslavia .
 In sostanza, sarebbe stato possibile avviare un vero ciclo di negoziati e non il disastroso diktat americano presentato a Milosevic alla conferenza di Rambouillet, e inviare un consistente numero di osservatori esterni capaci di proteggere sia i civili albanesi che i civili serbi . La Nato decise invece di rigettare le opzioni diplomatiche, che non erano affatto esaurite, e di lanciare una campagna militare che, come previsto, ha avuto terribili conseguenze per gli stessi albanesi del Kosovo che si voleva in teoria tutelare . Come spiega Chomsky, “ può darsi che l’uso della forza sia giustificato. Ma questo deve essere dimostrato”. E nel caso specifico, non è stato affatto dimostrato . Con buona pace della reapolitik accreditata a D’Alema , elogiato perché l’ideologia post-comunista non gli avrebbe fatto velo nella sua scelta interventista ( anche D’Alema , comunque, ha avuto dei ripensamenti , dichiarando il 24 marzo al “Riformista” che “bombardare Belgrado e le altre città serbe fu un errore”. Questi “errori” purtroppo hanno sempre un costo notevole in termini di vite umane.).
Diverso il discorso per l’Afghanistan . Dove l’uso della forza appare giustificato non solo dal diritto internazionale che prevede la rappresaglia ( nel caso specifico, i talebani avevano addestrato gli attentatori dell’undici settembre nei loro campi ), ma anche dai risultati ottenuti. Prima della guerra , lo zoccolo duro di Al Quaeda contava qui tremila uomini. Dopo la guerra, un migliaio sono stati catturati o uccisi dalle forze della Coalizione, altri mille sono fuggiti all’estero, il resto s’è rifugiato nel Waziristan , una terra arretrata dove non ci sono certo i mezzi per addestrare i futuri jiadisti come in Afghanistan.
Ma anche qui, se gli USA non la smettono di bombardare ed ammazzare i civili afghani ( è stata la prima preghiera di Karzai ad Obama appena insediato ) , i talebani potranno continuare ad additarli come “il vero nemico”.


















 28 aprile 2009 -
Se l’informazione si inginocchia davanti a Berlusconi...
Se l'informazione si inginocchia davanti a Berlusconi...
Le diatribe giornalistiche del tipo di quella recente che vede schierati sull’Unità Travaglio e Vespa (argomento: le avventure giudiziarie di Berlusconi) cominciano a diventare stucchevoli e datate come dei feuilleton a puntate.
Se pure, per ipotesi, Berlusconi fosse uscito ed uscisse innocente come una verginella da tutti i suoi processi passati, presenti e futuri, non per questo muterebbe il giudizio di chi lo considera il prototipo dell’italiano medio, per il quale il rispetto delle regole e la cultura della legalità sono concetti astrusi, talvolta addirittura obbrobriosi, e conta solo il proprio tornaconto personale a scapito dell’interesse generale (i vari Vespa della penisola difendendo Berlusconi difendono innanzitutto se stessi, il loro modo d’essere così peculiare alla nostra gente).
Oltretutto, non mi sembra proprio il caso di concedere al signor Bruno Vespa, il capostipite storico delle interviste in ginocchio (memorabile quella a braccetto con Forlani di lì a poco condannato per Tangentopoli), un ulteriore spazio di visibilità, oltre le quattro lunghissime serate televisive di Porta a Porta (spesso utili a sviare l’attenzione della gente dai fatti del giorno da lui ritenuti compromettenti per la sua parte politica), nonché gli innumerevoli libri che la sua premiata ditta sforna a suo nome e la Mondadori di Berlusconi regolarmente edita, opere memorabili in cui il Nostro si esibisce, ahimè, da “storico” (poveri noi! come siamo caduti in basso!), per finire con gli “editoriali” (si fa per dire) che il Nostro si fa pubblicare su molti quotidiani compresa la Gazzetta della mia città (Parma).
L’ultimo dei quali, del 16 aprile u.s., era particolarmente disgustoso. In esso “Emilio” Vespa trova modo di elogiare il suo padrone Berlusconi anche su una decisione del tutto indifendibile, economicamente dispendiosa per tutti noi, quale quella di non accorpare referendum ed europee , scrivendo che l’ha fatto – udite! udite! – per noi, per evitare una crisi di governo che ci danneggerebbe in questo periodo di crisi!
E noi che – ingrati - non corriamo a baciare il santino del Berlusca che a questo punto, secondo Vespa, dovremmo tenere sul comodino con tanto di lumino acceso accanto!

Ora, a parte che la crisi di governo è un’invenzione di Emilio Vespa, visto che la Lega ha solo una quarantina tra deputati e senatori e non farebbe certo venir meno la maggioranza bulgara del Berlusca in Parlamento, non gli passa per la mente a questo signore che in ogni caso non è un bel vedere, un premier che da un lato tuona perché non ha tutti i poteri che gli abbisognano per governare e minaccia sfracelli alla Costituzione, e dall’altra alla prima occasione mostra che di questi superpoteri non saprebbe proprio che farsene, non avendo minimamente la stazza dello statista, in quanto al primo BAU della Lega si cala le braghe ed abbozza come l’ultimo dei cacasotto!









 21 maggio 2009 -

Il razzismo istituzionalizzato

Il razzismo istituzionalizzato
Nella generale crisi di valori, quello che sta venendo meno sopra tutti è proprio il valore fondamentale del rispetto della vita e della persona umana.
Ne abbiamo prove eclatanti tutti i giorni e per ogni dove e non solo da parte di criminali incalliti, o dittatori spietati o governanti cosiddetti “democratici” in tuta da combattimento e loro volenterosi carnefici, ma di cosiddetti cittadini “comuni”, quelli della porta accanto.
 
Reduci da secoli di violenza generalizzata e bestiale, ivi compreso l’ultimo, il ventesimo, passato alla storia come il “secolo degli assassini” per eccellenza e conclusosi con la mattanza tra etnie nella ex Jugoslavia, avevamo ingenuamente sperato che perlomeno il cittadino comune delle società più evolute come la nostra avesse appreso come la violenza collettiva, gli odi tribali, una volta evocati, travolgano tutto e tutti come un fiume in piena, lasciandosi alle spalle solo lacrime e macerie.
 
E invece …
Nella generale assuefazione alla violenza e alla morte prodotta dai telegiornali all’ora di pranzo e di cena, con massacri inenarrabili raccontati con voce afona, senza incrinature, da mezzibusti che passano subito dopo, con disinvoltura, a parlare di frivolezze, la morte attira un’attenzione volgare ed irrispettosa solo se fa spettacolo (applausi alle bare in uscita dalle chiese come a quella del piccolo Tommy a Parma nel 2007, foto al caduto alla fila per la mostra come ad Urbino l’altro ieri), altrimenti passa nell’indifferenza più assoluta (i bagnanti che continuano tranquillamente a prendere il sole in spiaggia con lì accanto il morto come a Trieste qualche estate fa, per non parlare dei “giornalisti” che chiedono alla vittima ancora sanguinante o ai suoi parenti se perdonano il carnefice come si trattasse di un piccolo sgarbo, o dei “giudici” che mandano libero un criminale che da ubriaco fradicio o sotto effetto di droghe ha travolto con l’auto il passante indifeso ).
 
Ma, soprattutto, razzismo e xenofobia fanno sempre più parte del sentire comune, oltretutto in un contesto in cui i reati (eccetto quelli contro il patrimonio, in leggero aumento) sono in diminuzione, perlomeno negli ultimissimi anni.
 
Basta una piccola notiziola di cronaca (es. un tizio, pare un tunisino, che insidia una barista in centro) ed il coro dei linciatori di professione in servizio permanente effettivo si scatena (sul sito della Gazzetta di Parma, città considerata “civilissima” i commenti più edulcorati suonavano così: “Siamo stanchi di essere la pattumiera d’Europa, il ricettacolo della delinquenza. E di chi è la colpa? DELLA SINISTRA E DEI PRETI “ oppure “IN ITALIA E’ UNO SCHIFO, LA SITUAZIONE PEGGIORA DI GIORNO IN GIORNO! MA CI PENSA LA SINISTRA A DAR MAN FORTE A QUESTA GENTAGLIA CHE CI HA INVASO! PRENDIAMOLI A CANNONATE IN MARE E POI VEDIAMO! “).
 Tutto questo in un popolo immemore cui solo pochi decenni fa si infliggeva la stessa violenza, le stesse angherie e per gli stessi motivi: i nostri nonni che appena sbarcati in America (spesso tuffandosi in acqua al comparire della statua della Libertà perché privi di documenti, proprio come i tanto vituperati boat-people al largo di Lampedusa) venivano catalogati tutti come mafiosi e criminali (e parecchi in effetti lo erano o lo sarebbero diventati fondando “Cosa nostra”), o quelli che negli anni cinquanta dal Sud andavano a lavorare alla Fiat e si imbattevano nei cartelli “Non s’affitta ai meridionali”, come ci racconta il film “Rocco e i suoi fratelli”.
 
Ma come è stato possibile che gli “italiani brava gente” si siano ridotti così? E’ un razzismo diventato ormai “costituzionale” oppure indotto in buona parte sia dallo scarso governo del fenomeno che dalla manipolazione mediatica (che sottolinea sempre, ad esempio, l’origine straniera di reati odiosi come lo stupro, dimenticando che sono commessi al 60 per cento da italiani e fra le mura domestiche: un reato, questo, che è “tipico”, si potrebbe dire, dei paesi cattolici, dove c’è repressione ed inibizione sessuale sconosciuta nei paesi scandinavi), sulla quale specula la Lega, appiattendo tutto il problema sicurezza sul fattore immigrazione, sia pur in concorrenza sempre più stretta col Berlusconi contrario alla società multietnica o forse soltanto indispettito dal fatto che i frutti del “lavoro allo stomaco” degli italiani da parte delle sue TV giovino soprattutto agli uomini di Bossi? In assenza di controprova, non è dato saperlo.
Secondo qualche commentatore, poi, (Luca Ricolfi sulla Stampa, ad es., subito ripreso da Belpietro su Panorama) quelli che si oppongono alle derive xenofobe (ossia i soliti snob, le anime belle della sinistra) se lo possono permettere perché tutta gente abbiente che non ha da temere concorrenza sul lavoro e sul welfare da parte degli extracomunitari.
 
Secondo questa tesi, dunque, è da snob scandalizzarsi, ad esempio, perché un tizio, come s’è scoperto di recente (ma notizie di questo genere, fuori dal coro mediatico, sono relegate in qualche riga di cronaca), affitta il proprio appartamento alla bellezza di ottanta, diconsi ottanta, extracomunitari (un caso-limite, ma tanti proprietari di case ed imprenditori del Nord, che poi magari corrono a accalcarsi sotto le bandiere della Lega, lucrano indisturbati sulla pelle degli extracomunitari). Che i più non se ne scandalizzino, è tuttavia un dato di fatto con cui bisogna confrontarsi (improbabile però che la xenofobia nasca, tra i meno abbienti, solo da ragioni pratiche ed oggettive).
 
Quanto ai fenomeni criminali che la presenza degli extracomunitari irregolari ed in minima parte di quelli regolari (ai quali si attribuisce solo il 2,2% dei reati) può scatenare, non si può certo affrontarli con la sola prevenzione dopo decenni di colpevole indifferenza e negligenza.
 
Ma anche la repressione (ammesso e non concesso che nel paese del pressapochismo si riescano ad applicare con efficienza, quando occorre, politiche repressive, o invece ci si limiti a fare la faccia inutilmente feroce) non può degenerare in pratiche ridicole e pericolose come le “ronde”, istituto di cui l’Italia ha ora l’esclusiva, che faranno probabilmente la fine dei famosi “poliziotti di quartiere”, tanto propagandati dal precedente governo Berlusconi (cinquemila uomini che dovevano garantire la sicurezza, specie nelle ore notturne, delle periferie di medie e grandi città, di cui si vede ogni tanto qualche raro esemplare a passeggio, di solito in coppia ambosessi, ma di giorno e in pieno centro: in Italia manca da sempre la cultura del pattugliamento come nei paesi anglosassoni, dove sanno davvero cosa vuol dire la parola “piedipiatti” ).
 
Lo stesso reato di clandestinità dell’immigrato non può dare una buona prova, perché coinvolge decine di migliaia di badanti senza le quali il nostro sistema di assistenza, che non si è mai curato degli anziani, salterebbe, nonché persone che hanno perso il lavoro non per loro colpa.
 
Come funzioni poi il nostro sistema di custodia cautelare o di espulsione lo si è potuto ammirare recentissimamente nell’isola di Lampedusa., dove i CPT (Centri di permanenza temporanea) ed i CIE (Centri di identificazione ed espulsione), affollati all’inverosimile, hanno portato a rivolte particolarmente virulente ( gli stessi lampedusani intervistati hanno ammesso con onestà che in quelle condizioni terribili di vita si sarebbero comportati allo stesso modo ). Il tutto per ottenere questo mirabolante risultato, denunciato dal sindaco dell’isola: negli ultimi tempi si è riusciti ad espellere la favolosa cifra di ben 7 (sette) immigrati!
Mai che si abbia il buon senso di guardare oltre il proprio naso, ed in particolare là dove il problema è stato affrontato con un certo successo, come la già citata Spagna, dove perlomeno il problema dell’integrazione dei nomadi (700.000 contro i 150.000 nostrani) si può considerare risolto (come riferisce uno dei pochi programmi seri d’informazione televisiva, ossia “Report” di Rai 3, niente a che vedere con le passerelle dei politici dai vari Vespa e Floris). Come imitarla?
 
Intanto:
1) evitando di tagliare i fondi anche in questo campo (come al Fondo per l’inclusione sociale, creato nel 2007 per favorire l’integrazione degli immigrati, che finora ha finanziato solo quattro progetti presentati da altrettanti Comuni, per un totale di € 2.636.892: non a caso la stessa Carta di Parma ne chiedeva il rifinanziamento) ed anzi attirando i fondi CEE con progetti validi (solo un milione di euro, finora, contro i 62 ottenuti dalla Spagna), come il progetto iberico “Accedere”, impostato su basi molto concrete e tali da inculcare nelle etnie rom e sinti l’interesse verso la scolarizzazione dei loro ragazzi, togliendoli dalla strada ad elemosinare o rubare ai passanti o in appartamenti (molti adolescenti si sono diplomati o laureati ed uno di loro è diventato addirittura deputato al parlamento nazionale dopo esserlo stato in quello federale catalano) .
 
2) istituendo anche da noi la polizia ”di convivenza sociale” che si occupi di mediare tra le varie etnie, intervenendo per evitare i noti fenomeni di sfruttamento soprattutto nel settore immobiliare;
 
3) promuovendo l’insediamento abitativo e la cittadinizzazione degli immigrati, unico modo per avere una vera integrazione, il che oltretutto aumenta il controllo sociale sui soggetti a rischio di devianza.
 
O si preferisce rincorrere i facinorosi dell’una e dell’altra parte che smaniano dalla voglia di menare le mani per liberarsi dalle loro personalissime frustrazioni quotidiane? 






























 26 maggio 2009 - 3 commenti

 

L’orgia del potere

L'orgia del potere
La locuzione “orgia del potere” non è stata, nella storia, solo una metafora.
Metafora e realtà sono andate spesso a braccetto, soprattutto nei periodi più bui della storia.

Dai tempi degli imperatori romani del basso impero (tra i quali non mancavano i pederasti) a quelli dei più abietti tra i “papa re”, come il sulfureo Rodrigo Borgia (Alessandro VI) coi suoi baccanali nelle sacre stanze descritti dal Burckard, per finire al Mussolini che nella Sala del Mappamondo di palazzo Venezia riceveva le sue amanti, il Palazzo si è spesso trasformato in un sordido lupanare.
Se c’è un elemento, dunque, che più di altri (ad esempio le critiche al Parlamento ed ai parlamentari di Berlusconi), dà l’idea di un regime in fieri è proprio quello di un capo che, inebriato da tanto potere e da tanto consenso, si sente ormai libero di dar sfogo persino alle sue smanie da vecchio sporcaccione, proprio come un “imperatore “ romano della decadenza (citazione letterale d’una moglie che non vuole passare per una complice Messalina), con le squallide barzellette da trivio, le veline candidate al parlamento europeo o raccomandate alla RAI, le galanterie piene di doppi sensi alle “sue” ministre (ma qualcuno sospetta che non si sia fermato a quelle), le feste in Sardegna affollate di minorenni (le Noemi di turno), il Tigellino-Fede che corre a mostrargli i “book” delle aspiranti cortigiane e tutto il resto….

Manca solo che il poeta di corte, il ministro Bondi, gli reciti i suoi carmi al suono della cetra come ai tempi di Nerone, mentre la “plebe” - per la quale vocaboli come responsabilità, serietà, coscienziosità, arricchimento interiore e culturale sono ormai sconosciuti - è ridotta allo stato brado di inerte e persino divertita spettatrice.
 
Chissà se un dì lontano, consumato fino in fondo questo ciclo storico di decadenza che oggi appare irreversibile, i nostri posteri vedranno finalmente l’alba d’un nuovo rinascimento.




















 29 maggio 2009 -

 

I bidoni di Moratti

I bidoni di Moratti
Ma quale Bill Gates e la sua pur munifica Bill Melinda Gates Foundation!
Se c’è un filantropo coi fiocchi a questo mondo, si chiama Massimo Moratti, il presidente dell’Internazionale Football Club, nota come la società di calcio più spendacciona d’Italia (nonché – incidentalmente – ad della raffineria Saras di Sarroch).
 
E’ il benefattore che dal lontano 1995 ingrassa ogni sorta di procuratori e scamorze in tutto il mondo, per poi sbarazzarsi subito dopo di queste ultime rivendendole a prezzi stracciati o affittandole ad altre squadre (come il fenomenale Quaresma, acquistato a settembre 2008 per 18 milioni di euro, autore di un solo gol su 13 presenze in campionato, giudicato il peggior giocatore della Serie A, quindi ceduto nel febbraio di quest’anno “in prestito” al Chelsea).
 
La sua Inter ha accumulato qualcosa come 149 milioni di euro di deficit, ma quello imperterrito - oltre che procuratori e scamorze scadute - continua ad arricchire anche i suoi allenatori, che o licenzia in vigenza di contratto, continuando dunque a pagarli per anni per stare con le mani in mano, oppure - alle prime voci diffuse ad arte di dipartita per qualche altro club - seppellisce di badilate di euro pur di non privarsi di cotanto apporto (come, per non far nomi, lo “Special One” vincitore di uno scudetto per mancanza assoluta di avversari degni di questo nome).
 
Uno potrebbe dire: e chi se ne frega, tanto son soldi suoi! Un corno! Primo, pare che il Nostro a volte ripiani i debiti dell’Inter turlupinando il mercato azionario (come quando ha quotato in Borsa la sua Saras ad un prezzo gonfiato di sei euro ad azione, con un danno stimato per il mercato di 700 mila euro). Secondo, che è ancora peggio, quei soldi potrebbero finire almeno in parte a migliorare la sicurezza nel sua raffineria, magari riducendo i lavori in appalto.
 
Ma tant’è, si può star certi che il Nostro preferirà sempre dare in pasto ai suoi tifosi la giusta dose di panem et circenses piuttosto che ai suoi operai qualche dose in più di sicurezza e magari qualche piccolo aumento in busta paga.
 
Al che uno potrebbe chiedersi: ma che ci ricava il Moratti da questa Inter? Di sicuro non vende nemmeno un gallone di benzina in più (mai sentito di un automobilista che alla pompa di benzina chieda: “Mi dia la benzina raffinata dal Moratti, che son tifoso dell’Inter “. E allora? Pura vanità di apparire? Certo, anche questo. Ma non dimentichiamo che in famiglia il Nostro ha due signore Moratti acquisite che fanno entrambe politica utilizzando – guarda caso - quel nome e non il nome di battesimo, ossia la moglie del fratello Gianmarco sindachessa di Milano (al secolo Letizia Brichetto-Arnaboldi, in arte Letizia Moratti) e la moglie del Massimo consigliera comunale (al secolo Emilia Bossi, in arte Milly Moratti), guadagnandone popolarità e voti .
 
Io però al posto del Moratti a questo punto sarei un po’ preoccupato: se anche nella prossima stagione, dopo le badilate di euro di cui sopra e le probabili spese folli per qualche altro bidone in circolazione, l’Inter non riuscisse ad acchiappare quel trofeo internazionale che le manca da trentaquattro anni, c’è il caso che anche i più decerebrati tra i suoi tifosi comincino a spazientirsi (e forse le contestazioni non si limiterebbero ai fischi ed agli striscioni di sfottò dedicati in fine stagione al Berlusconi patron meno filantropo della cugina Milan).








 17 giugno 2009 -

Venghino al circo delle promesse del Premier

Venghino al circo delle promesse del Premier
Rinverdendo i fasti del famoso “Patto con gli italiani” sottoscritto l’otto maggio 2001 a “Porta a porta”, quando promise mari e monti per i cinque anni a venire (compreso uno stanziamento di ben 200.000 miliardi per le “grandi opere”) e dimissioni irrevocabili in caso di fregature, puntualmente verificatesi (le fregature, non le dimissioni), il Berlusconi-ter, allo scadere del primo anno di governo della nuova gestione, enumera i suoi portentosi successi e gli altrettanto portentosi programmi futuri davanti ai giovani imprenditori riuniti a Santa Margherita ligure.
 
Il tono di voce è quello cristallino ed esuberante del clown all’ingresso del circo:
Venghino, signori, venghino! Più gente entra, più bestie si vedono!”
O del ciarlatano che sfoggia i propri mirabolanti preparati: "Udite, udite, o rustici…/Io già suppongo e immagino / che al par di me sappiate /ch’io sono quel gran medico, /dottore enciclopedico /chiamato Dulcamara, /la cui virtù preclara /e i portenti infiniti /son noti in tutto il mondo... e in altri siti. /Benefattor degli uomini, /riparator dei mali, /in pochi giorni io sgombero /io spazzo gli spedali, /e la salute a vendere /per tutto il mondo io vo. /Compratela, compratela, /per poco io ve la do .
 
Gli astanti, “beatificati” dal loro messia come quelli che mai licenzierebbero i loro dipendenti, “il loro bene più prezioso” ( infatti sono “ristrutturazioni” , oppure “riduzioni dell’organico” , oppure “razionalizzazione delle strutture produttive” o al massimo , più audacemente, “tagli di dipendenti “, mica licenziamenti , quelli in corso a catena su tutto il fronte, dal Nord al Sud, dalle piccole alle medie alle grandi aziende ) applaudono freneticamente, anche quando li si invita papale papale a boicottare l’opposizione ed i suoi giornali, pratica degna di altri periodi storici.
 
Ma ecco, siore e siori, il catalogo dei portentosi prodotti del novello Dulcamara :
- “abbiamo aperto un fantastico prototipo di termovalorizzatore per Napoli" (“termovalorizzatore” è la solita parolina magica per far dimenticare che si tratta del solito inceneritore cancerogeno, con la sola differenza che produce anche energia elettrica) “moltiplicabile per n volte su tutto il territorio (terribile minaccia);
- “faremo nascere trecentomila nuovi posti di lavoro dalla realizzazione del Corridoio 5 Lisbona – Kiev via Frejus e Trieste" (un dato assolutamente presunto, senza tener conto della discutibile procedura utilizzata per questa come per le altre cosiddette grandi opere, ossia senza studi d’impatto ambientale sufficienti né concertazioni con le popolazioni interessate, col rischio concreto che si ripetano le devastazioni immani nel Mugello della Bologna-Firenze, in barba allo sviluppo sostenibile che l’Europa inutilmente promuove e che ha procurato molti voti ai Verdi alle ultime elezioni europee);
-  “dal primo settembre apriremo 19 nuovi cantieri!" (numeri al lotto e promesse al vento senza specificare di che si tratta, tanto nessuno andrà poi a controllare: l’importante è l’effetto annuncio, nella sua stringente logica televisiva) ;
-  “abbiamo costruito in soli dieci mesi un centro congressi modernissimo alla Maddalena" (cioè a casa del diavolo, da usare ad ogni morte di papa, forse. E chissenefrega se il G8 nel frattempo è stato spostato a L’Aquila, tanto paga Pantalone, compresi i 70 milioni di euro pagati alla Telecom per il collegamento sottomarino ad Internet dei quattromila delegati che dovevano essere ospitati su una nave da crociera al largo dell’isola);
- “cominciamo a consegnare le case ai terremotati dell’Abruzzo il 15 settembre e finiamo il 30 novembre” ( ammesso che si rispettino questi tempi – ma la Protezione civile prevede fine dicembre – si tratta di 3 mila casette per 13 mila sfollati; ne restano 40 mila che non si sa che fine fanno);
entro il 2011 tutta la P.A. sarà digitalizzata" (questa sono anni che la sentiamo; per il momento non si riesce a scambiarsi un documento informatico manco all’interno dello stesso ufficio pubblico);
- “abbiamo stanziato 34 milioni di euro in più per la cassa integrazione“ (piuttosto si introducesse come in tutta Europa il “reddito minimo garantito” );
entro la fine del mese parte il piano – casa nelle regioni governate dal centro-destra" (ma il presidente della conferenza delle Regioni Errani gli aveva già fatto presente che “tutte le regioni stanno preparando le leggi, ma l’unica che l’ha approvata è quella Toscana, ad amministrazione di centrosinistra. Invece tutti stiamo aspettando da cinque settimane il decreto di semplificazione del governo che non arriva") .
- “costruiremo in tutti i capoluoghi delle “new towns” per le giovani coppie che non trovano casa, a tassi di mutuo più bassi degli affitti medi " (il vecchio palazzinaro ci riprova, ma poteva intanto allargare l’offerta recuperando qualcuna delle migliaia di case sfitte o di case popolari chiuse che non vengono ristrutturate per mancanza dei fondi, grazie anche  alla sparizione dell’ICI).

Affondo finale, alla Cyrano de Bergerac:

Ho convinto io Bush in un solo giorno a salvare le banche USA a rischio, dopo il caso Lehman Brothers” (sempre lui, solo lui, come quando raccontava di aver fatto riavvicinare Usa e Russia o di aver convinto i turchi ad accettare il danese Rasmussen a capo della Nato: a questo punto ci vorrebbe qualcuno in camice bianco che lo tenga calmo intanto che arriva l’ambulanza ).
 6 giugno 2009 –
A cosa servono i servizi segreti in Italia?

A cosa servono i servizi segreti in Italia?
E’ un po’ come chiedersi: a cosa servono le nuvole? (che era anche il titolo di un episodio di un film di Pasolini con Totò protagonista ).
 
Questi fantomatici servizi segreti – niente a che vedere ovviamente con l’efficientissimo servizio segreto di Sua Maestà Britannica - hanno negli anni cambiato sigle e vertici, in un tourbillon infinito di “riforme” più o meno inutili: prima SIFAR, poi SID, SISME, SISDE, AISI, CESIS, DIS ecc., ma non s’è mai capito bene cosa facessero di utile, a parte che complottare ai danni della Repubblica (dal tentativo di golpe negli anni 60 con il tristemente noto generale De Lorenzo in combutta con l’allora presidente Segni, al coinvolgimento nella strategia della tensione a base di stragi culminate nell’eccidio di Bologna del 2 agosto 1980) o dedicarsi ad altri ameni trastulli quali intercettazioni più o meno abusive, schedature di massa ed eccellenti ecc. Tutto, insomma, tranne quello che avrebbe dovuto essere il loro compito istituzionale, un compito oltretutto affatto secondario, ossia il controspionaggio (e se ciò non ci ha provocato conseguenze assai gravi , è solo perché le stesse organizzazioni terroristiche o spionistiche straniere ci considerano un paese di serie B di cui non vale la pena occuparsi).
 
Ma ecco le cronache di questi giorni svelarci che questi servizi forse hanno trovato finalmente qualcosa di davvero utile e meritorio da fare: curare la sicurezza personale del capo del governo!
 
Pare infatti che tutti gli “specialisti” che fanno da scorta al premier (provenienti dall’Arma dei carabinieri o dalla polizia o dalla guardia di finanza) siano stati posti alle dipendenza del DIS, sigla pro-tempore della struttura di coordinamento dei servizi segreti. Ma ahimè, è destino che dovunque mettono le mani, questi benedetti servizi, fanno danni. Ed infatti la magistratura sta indagando sugli strani compiti affidati a questi “specialisti”, svelati dalle foto rubate dal signor Zappadu nei paraggi di Villa Certosa in Sardegna (e subito sequestrate, con eccezionale tempismo, da due inquirenti romani): portare a spasso per la villa le eccitatissime ed avvenenti ospiti di turno sulle minicar di questa Gardaland privata (incarico – si suppone – assai gradito) o vigilare – tuta mimetica e mitragliatore alla mano - sulla loro preziosa sicurezza. Il tutto naturalmente a spese del solito Pantalone, cioè noi.
 
Ed è commovente, ancora una volta, lo zelo di questi servitori dello Stato, trasformati in gorilla privati: è la sudditanza psicologica verso i potenti che connota da sempre, purtroppo, troppi uomini in divisa (lontanissimi dal considerare che questi signori, in teoria, dovrebbero essere, in una democrazia compiuta quale non è mai stata la nostra - nient’altro che i “servitori” del popolo sovrano che li elegge, come anni fa si affannava inutilmente a spiegare il famoso “cittadino Bertuzzi” , uno dei pochi veri “cittadini” di un paese di sudditi impegnati a supplicare favori anziché ad esercitare diritti).
 
Basta guardarli, fuor di villa Certosa, mentre – seminando panico - si fiondano sgommando, a sirene spiegate e palette sventolate freneticamente dai finestrini, per le vie della capitale e dell’Italia intera, intenti ansiosamente a portare in salvo da pericoli veri o immaginari il loro prezioso carico, o mentre formano cordoni sanitari attorno a un potente intento a qualche stanco rito commemorativo, allontanando con ferrea determinazione i passanti.
Scene tipiche di paesi da terzo mondo come per molti versi è il nostro. 

 

 

 

 

 

 

 

I lacché di professione

I lacché di professione
 Quanti servi nutre costui!“
 Giovenale, Satira III 

..Ed elli allor, battendosi la zucca:
«Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe
ond’ io non ebbi mai la lingua stucca»
.
Dante, Inferno,canto XVIII,Malebolge dei ruffiani e degli adulatori

“ Un’ errore dal quale i principi
con difficultà si difendano,
 se non sono prudentissimi,
o se non hanno buona elezione...
sono li adulatori, delli quali le corti sono piene”.
Machiavelli, Il Principe, cap. XXIII

L’adulazione non viene mai dalle anime grandi,
 è appannaggio degli spiriti piccini,
che riescono a rimpicciolirsi ancor più
 per meglio entrare nella sfera vitale
 delle persone intorno a cui gravitano.
Honoré de Balzac


I lacchè, nell’ansia di compiacere i loro padroni, vanno spesso aldilà dei limiti del mandato (oltre che della decenza), rischiando di attirare su di sé e sui loro principali il ludibrio generale (e le reprimenda tardive di questi ultimi per la figuraccia rimediata).
        Quelli alla Ghedini, il leguleio alla corte di re Silvio, detto anche “ Ma va’ là” per l’abitudine di così dottamente argomentare le sue tesi durante le numerose comparsate televisive (evidentemente a destra non hanno niente di meglio da esporre), hanno illustri ed infiniti prototipi nella letteratura.
          Ma a me vengono in mente di primo acchito soprattutto un paio di esempi tratti dal cinema .
         Come l’infingardo Alberto Sordi che, nel film “La grande guerra” di Monicelli, quando durante un’ispezione il suo comandante gli chiede cosa ne pensa del rancio, per compiacerlo si mette ritto sull’attenti e risponde pronto: “Ottimo ed abbondante, signore! ”, per sentirsi replicare da quello : “E invece è una schifezza immonda! “, guadagnandosi così il disprezzo del suo capo e della truppa intera.
                O l’anonimo popolano che apostrofa con un pronto e sonoro “Bravo! ” il Nerone di Petrolini, prima ancora che questi abbia terminato di pronunciare enfaticamente la frase “Ed io rifarò Roma più bella e più grande che pria !“. Al che quello, per farsi adulare ancora, la ripete ad libitum, salvo alla fine cominciare a dubitare che lo si stia prendendo per il sedere.
          Quindi, se è vero che alla corte d’un potente non mancheranno mai gli adulatori (pare anzi che le donne lo trovino addirittura sexi, anche se non è un Adone: durante una puntata di Annozero di Santoro la direttrice di Novella 2000, la nasuta Candida Morvillo, fece ridere tutti gli astanti definendo Berlusconi “un bellissimo uomo”), è pur vero che un’adulazione spinta fino all’eccesso provoca sempre danni o all’adulato o all’adulatore o, più spesso, a tutti e due.
                Ma il Berlusca è talmente affamato di adulazioni, che finora non pareva essersene accorto, come per le infinite gaffes dei vari Vespa, Fede e compagnia cantante (anzi in una dichiarazione a “La Repubblica” aveva addirittura gratificato Fede come “un baluardo della democrazia e dell’informazione”; e noi che non c’eravamo nemmeno accorti che quella di Retequattro fosse una vera testata giornalistica e non piuttosto una rivista di varietà!). Vero anche che ne aveva messe tante insieme in prima persona, di gaffes (immaginate solo i sudori freddi dei poveri diplomatici della Farnesina che devono accompagnarlo nelle varie “gite” all’estero), che doveva giocoforza essere tollerante con quelle altrui.
               Ma qualcosa è cambiato, ed i suoi cortigiani più spinti sono avvertiti: Silvio, gaffeur di prima classe, inguaiato fino al collo, non tollererà più le gaffes altrui che si ritorcano contro di lui, sia pure fatte con le migliori intenzioni di questo mondo.
 Commento

 

 

 

 

30 giugno 2009

Noi, il quarto mondo

Noi, il quarto mondo
Quelli del cosiddetto Terzo mondo che vengono da noi ci gratificano come “Primo mondo”, ma per molti versi l’Italia appartiene non al Terzo, ma al Quarto mondo! Non per niente abbiamo come capo del governo un campione di pubblica e privata moralità (si fa per dire) che si vanta, ed a ragione, dell’apprezzamento degli italiani, i quali infatti hanno persino dimenticato il significato della parola “etica” e dunque possono ben riconoscersi in un simile soggetto.

Ma il quarto mondo che è da noi si manifesta in tanti altri modi.

Nello stato penoso della scuola (che si può esemplificare con un solo dato, riferito all’anno scolastico 2008-2009: ben il 72 per cento degli studenti delle superiori ha un’insufficienza in almeno una materia) e dell’università (nessun ateneo italiano tra i primi 190: quello di Bologna è 192esimo in classifica).

Nel trattamento infame dei lavoratori (13.000 euro netti di stipendio annuo contro i 17.000 della media europea: peggio di noi solo portoghesi e cechi, mentre solo lo 0,5 per cento dei contribuenti dichiara oltre 120.000 euro l’anno, contro una platea effettiva calcolata sui consumi di lusso di circa il 5 per cento, cioè dieci volte tanto).

In uno stato sociale gravemente lacunoso e inefficiente (tutti gli altri paesi europei hanno il “reddito minimo garantito”, per cui a chi scende sotto questa soglia lo Stato versa la differenza; di converso, un buon 90 per cento di chi prende la pensione d’invalidità è fasullo).

Nella quasi totale dipendenza energetica dall’estero (per l’85 per cento), frutto di malaugurate scelte del passato e dei conflitti di competenza che bloccano la ricerca delle fonti .

Nei ritardi accumulati nell’implementamento ed ammodernamento delle infrastrutture, comprese le strade le cui pessime condizioni sono la concausa del 40 per cento degli incidenti: la Francia ad es. spende dodici volte di più per la manutenzione del manto stradale.

L’elenco potrebbe continuare ad libitum, ma voglio a questo punto indicare un altro nostro primato negativo, che può apparire secondario ma non lo è per la non minuscola schiera di amanti degli animali: il trattamento che, anche nella “civilissima” Parma viene riservato, in particolare, ai cani nei luoghi pubblici, cui si vieta l’accesso agli esercizi commerciali, anche quelli non alimentari (con qualche eccezione come la benemerita IKEA), senza che ci sia uno straccio di regolamento statale o locale a giustificarlo (a volte, par di capire, questo accade anche per l’eccesso di zelo e l’ignoranza , quando non la malafede, dei signori preposti ai controlli, compresi i vigili urbani, se è vera la giustificazione addotta in molti casi di presunte “multe” in agguato).

Hanno provato anche quelli di Trenitalia, a vietare l’accesso ai nostri amici cani (che soffrono la nostra lontananza senz’altro più di quanto anche i più affezionati padroni soffrano la loro), ma sono stati costretti a fare precipitosamente marcia indietro a furor di popolo, per cui il cane fino a dieci chili sale gratis in carrozza, ma in gabbia, mentre quello di media e grossa taglia paga il biglietto scontato del 50 per cento e deve portare museruola e guinzaglio. Non altrettanto dicasi purtroppo per l’aereo, dove si pretenderebbe di mettere i poveri cani nella stiva: ma ci vadano quelli dell’Alitalia o come cavolo si chiama, nella stiva a morir di freddo!

Tutto questo mentre altrove, segnatamente in Francia, Germania ed Inghilterra, io posso portare il mio cane di grossa taglia anche, per dire, in un ristorante a cinque stelle, dove anzi Fido troverà sotto il tavolo una scodella già bell’e pronta: roba da marziani, per chi abita purtroppo in questo spicchio decentrato di quarto mondo. 


























 26 ottobre 2009

Se in Afghanistan l’onore vale più della vita



 
Le dichiarazioni dei familiari dei sei soldati italiani morti a Kabul nel recente attentato sono sconcertanti: “Sono orgogliosa di mio marito, paracadutista della Folgore”, ha detto Stefania Giannattasio, vedova del sergente maggiore Roberto Valente. E Anna D’Amato, la madre del caporal maggiore Massimiliano Randino, ha definito il proprio figlio “un eroe” perché “è morto facendo il proprio dovere”.
E’ come se dicessero che l’onore dei propri figli e mariti è più importante di quel bene prezioso sopra tutti – su questo almeno spero che si sia tutti d’accordo, laici e cattolici, preti e mangiapreti, interventisti e pacifisti - che è la vita umana, in questo caso addirittura la vita stessa dei loro cari!
 
Questi poveretti – pur di trovare un senso a quelle morti e al loro dolore, in effetti assai difficile da trovare (molti afgani son ridotti addirittura a rimpiangere i talebani, che perlomeno avevano debellato la miriade di criminali “signori della guerra” che oggi, sotto la protezione americana che li spaccia per “democratici” e rispettosi dei diritti umani, controllano di nuovo il 99,9 per cento del paese, occupandosi più di controllare la produzione di oppio destinata all’Europa che non la ricostruzione) - balbettano frasi che suonano più “naturali” sulle bocche di uomini politici e uomini in divisa, che hanno tutto l’interesse (com’è nella logica di ogni esercito e di ogni guerra) a mantenere alto lo spirito di corpo di quelli – quasi tutti meridionali, guarda caso - che sono laggiù a farsi ammazzare per un compenso che non è nemmeno così consistente – centotrenta euro al giorno – ma non varrebbe comunque la candela anche se fosse milionario.
 
Così facendo avallano le pose marziali e le posizioni intransigenti di quei signori che in guerra non ci vanno certo di persona, né loro né i loro parenti (non c’è un solo parlamentare che abbia un figlio in Afghanistan).
 
Viene in mente un ricorso storico: nel 1939 i polacchi, per fermare l’attacco nazista, avevano un’unica chance, per quanto per loro dolorosa: appoggiarsi all’URSS. Continuarono invece a gonfiarsi di orgoglio come la rana di Esopo, sbraitando stupide frasi tipo “l’onore è più prezioso della pace“. Risultato: in pochi giorni la Polonia fu occupata da nazisti e sparì dalle carte geografiche. 

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·  di massimo , 26 ottobre 15:34 Se in Afghanistan l’onore vale più della vita
Articolo vergognoso.
L’autore sarebbe stato il suddito ideale, prono e servile, di Hitler o simili .
Le ragioni per cui i nostri soldati sono in una terra lontana possono anche essere non condivisibili , ed io infatti non le condivido, ma il rispetto per i nostri ragazzi che rischiano , e talvolta purtroppo perdono , la vita , è un dovere sacro per ogni italiano.
·  di barbara , 26 ottobre 17:55 Se in Afghanistan l’onore vale più della vita
LA MENTE UMANA CERCA SEMPRE UN MOTIVO, IL PERCHE’ AD OGNI AVVENIMENTO, SOPRATTUTTO QUANDO SI PERDE UNA PERSONA CARA. DARE UNA MOTIVAZIONE AD UN ACCADIMENTO AIUTA A SOPPORTARLO, PUO’ ESSERE ANCHE UNA FALSA GIUSTIFICAZIONE MA E’ LO SCOPO LA COSA IMPORTANTE.
DOPO DI CHE, OGNI GUERRA NON E’ ALTRO CHE IL PERSEGUIMENTO DI INTERESSI DI LOBBIES POTENTI A DISCAPITO DI FORZE MENO IMPORTANTI CHE DI ONOREVOLE NON HA NULLA!!

·          Sono in partenza per l’Afganistan per la terza volta in quattro mesi. Lo faccio come imprenditore e come giornalista. Tuttavia analizzo e valuto quello che sta succedendo  in quell’inferno anche come Ufficiale della Folgore in congedo.

Ovvero come una persona che per un certo periodo di tempo ha eseguito ordini senza discutere, da volontario.

Sono in contatto da qualche settimana con le famiglie dei Caduti d i Kabul e le assicuro la massima attenzione al mio ritorno per studiare un esposto alla procura della Repubblica -se non addirittura una denuncia querela presso i Carabinieri di Parma- , per verificare se ciò che scrive sia offensivo per i familiari, che sono stati informati della sua lettera alla Voce di Parma.

Nel frattempo vorrei inaugurare un nuovo modo di esprimere ciò che penso di persone come Lei: si consideri schiaffeggiato in piena faccia a mani aperte dal sottoscritto. Ma solo sulla carta, ovviamente. Sono una persona civile, e da tempo inquadrata nella società.

Mi trattengo, nonostante mi rivolga a chi ha offeso una madre e una moglie di miei Colleghi caduti in servizio.Meriterebbe qualcosa di più , ma la trasformerei in un eroe.

Il suo astio contro i signorotti-politicanti della guerra lo rovesci nei comizi che certamente frequenterà, ma non lo faccia contro i militari.

La Folgore è in Afganistan perchè gli è stato ordinato. Sarebbe andata ugualmente a Torino, a Parma o in Sudan,o sotto casa Sua per difendere i suoi familiari e le Sue proprietà. Allo stesso modo è stata impiegata a rimuovere spazzatura in Campania.

In Darfur, nel 2008, ha salvato 12mila profughi dalla furia delle bande islamiche, sparando per difenderli.

In Somalia ha perso tre Paracadutisti e Gianfranco Paglia, onorevole adesso, ma ancora Maggiore della Folgore in servizio d’onore, è sulla carrozzina per avere slavato i suoi uomini. Poteva starsene nel blindato. Poteva non ritornare sul luogo dell’assalto dei banditi.

Lei non lo avrebbe fatto. Grazie a Lui 4 suoi uomini si sono salvati e un ferito gravissimo è stato preso per i capelli. Lui è medaglia d’oro, e alla Accademia di Modena, alla apertura dei corsi dice: ho fatto il mio dovere.

 In Afganistan i talebani e le bande di trafficanti di armi e oppio hanno soggiogato la popolazione, schiavizzato donne e bambini, e angariato chiunque voglia studiare o lavorare usando un computer. Basterebbe questo per capire l’utilità della presenza internazionale. Parlo di Nato e Onu. Nessuno ha deciso. da solo. Italia compresa. Lei ne saprà certamente di più. Si proponga. Scriva a New York, invece che alla Voce di arma.

Che poi il compito di pacificare l’Afganistan sia impossibile e le distanze culturali INCOLMABILI, questo non lo decide la Folgore.

L’orgoglio di un paracadutista , ma anche di un Carabiniere o di altri reparti scelti, sta in questo: eseguire gli ordini che provengono dalle autorità democraticamente elette , ed eseguirli . Punto.
Solo un vigliacco se le prende con l’ ultimo anello della catena. Che sono parenti e mogli.
Eseguire gli ordini e non discuterli ad ogni livello, anche non militare, si chiama "ordine sociale". Si Chiama "società dotata di anticorpi contro la illegalità


". I ragazzi che escono dalla Folgore al congedo ( ora la rotazione è di 4-6 anni in migliaia di casi) , sono persone motivate, con il senso del dovere, con la capacità di prendere decisioni. Coraggiose e leali. Preziose per una ditta, per un Comune, per la polizia. Che le faranno comodo, prima o poi. Sono la struttura sociale buona. Quella che pagherà le tasse e difenderà il debole sull’autobus. Riesce a capirlo?
 Volontari che lavorano a contatto con la morte, per scelta, per onore, per orgoglio nazionale, per ideale di Patria che chiama.
 Che la guerra in Afganistan sia giusta o sbagliata non spetta a loro deciderlo. Anche per me è INUTILE. Non saprei che democrazia portargli: quella di mastella? di franceschini? di gasparri? Il nostro parlamento corrotto? 
Il militare non può rifiutarsi di andare. E nella Folgore, NON VUOLE rifiutarsi.
 La sua attitudine a fare il piccolo giudice saputello in pantofole la rende patetico.   
Quello che scrive, permettendosi di usare aggettivi da comizietto al bar, non mi sorprende. Sono abituato alla generazioni di pavidi e persone senza onore che pensano male di chi assume un impegno e lo mantiene.
Gente come Lei , pronta a tirare indietro la mano, a criticarin pantofole.Si : navighiamo in mondi diversi. Voi, la maggioranza senza patria. Noi, pochi, che crediamo che la Società debba avere punti di riferimento solidi. Non li chiamo Ideali, perchè Lei non capirebbe.
Diceva bene Monica Maggioni, del TG1, incontrata a Kabul il mese scorso: l’Italia non la merita, la Folgore.
Si vergogni, piuttosto, di essere così irrispettosi di parenti di Militari caduti in servizio.
walter amatobene



 13 ottobre

Camillo Langone: per le strade di Parma...

Camillo Langone: per le strade di Parma...
 Per le strade di Parma, dove è migrato da Lecce parecchi anni fa, senza farvi più ritorno, in spregio alla grammatica del verbo “migrare” (che implica “continue mutazioni di sede”) si aggira uno strano animale, il Longone (Camillo), dalle penne acuminate e con una vocazione fin troppo sbandierata e plateale da bastian contrario rispetto a tutto il “culturame” di sinistra (per riprendere il termine di Scelba e dei suoi tardi epigoni): una “cifra” artistica che ultimamente rende molto, in termini di appeal mediatico (se n’è accorto anche quella vecchia volpe di Giampaolo Pansa che a settantaquattro anni suonati s’è preso una botta di vita passando al quotidiano “Libero” di Giampietro).
  E difatti lo vediamo spesso – il Longone - appollaiato sugli scranni di manifestazioni parmigiane sponsorizzate dalla solita Fondazione Cariparma e dal solito gruppo editoriale (come il ParmaPoesia Festival, dove era la spalla del paroliere Mogol) o dalla Camera di Commercio (come il “Settembre italiano”, dove si è esibito nelle vesti di interlocutore di Alain Elkann).
         Ma la sua ansiosa voglia di presenzialismo si manifesta soprattutto negli articoli “ pepati” sul Foglio di Ferrara.
         Il bersaglio del Nostro è di solito l’emigrato extracomunitario: gli sta sulle palle, ovunque si manifesti, è una cosa di pelle, non c’è niente da fare.
       Per lui, come per tanti altri come lui, ormai è un riflesso condizionato: l’extracomunitario è la quintessenza, l’incarnazione del male, il responsabile di tutto quanto di non bello, di non edificante accade in città: dalla bottiglietta abbandonata per strada ad un qualsiasi atto di violenza .
           Nella sua mente esso assume i tratti inquietanti del criminale interpretato da Orson Welles nel film “Lo straniero” (in un paese come il nostro che vive per un buon terzo del suo territorio sotto il tallone delle varie mafie, dove ogni 48 ore c’è un omicidio in qualche italianissima famiglia, dove ogni anno in media si ammazzano venti vicini di casa).
             Le vette di questo parossismo le ha raggiunte con l’ultimo articolo di martedì dove si chiede retoricamente: “C’è qualcuno che sparerebbe ad un uccello migratore di passaggio per le nostre terre?“. Nessuno, tranne qualche “bracconiere calabrese”, ossia – spiega – “l’anello di congiunzione tra l’uomo e lo sciacallo" (immagino che la regione Calabria gli sia grata per questa citazione darwiniana )! E allora – suggerisce – smettiamola di chiamare poeticamente “migranti” anche gli extracomunitari che “ci entrano in casa senza permesso e pretendono pure vitto ed alloggio“ e non vanno certo “assimilati dissennatamente a dei fragili volatili a rischio di estinzione“.
               Dunque, è la conclusione logica che se ne può agevolmente trarre, chi spara a questi ultimi è assimilabile a un troglodita calabrese, mentre chi spara (o ributta in mare) gli extracomunitari dovrebbe essere considerato un patriota, giacché riduce “il rischio di estinzione del nostro popolo “ che il loro afflusso massiccio crea.
                Ebbene, mille volte meglio avere a che fare con Said o con Mohamed che con simili personaggi (che altrove verrebbero confinati alle frange estreme degli schieramenti politico-mediatici e qui hanno l’onore delle prime pagine dei giornali).
        Personaggi di cui spero che una comunità come quella parmigiana, con antiche tradizione civili, non menerà mai vanto, nonostante la sua smania di emergere. 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

14 ottobre 2009

Contro le escort l’assessore di Parma Lasagna fa proselitismo

Contro le escort l'assessore di Parma Lasagna fa proselitismo
Da Bologna arriva la notizia di una “Operazione Escort in rete", per colpire il mercato del sesso on line fra Rimini e Piacenza: quindici siti oscurati dal Tribunale del capoluogo su indicazione dell’ECOPOST , la polizia postale e delle comunicazioni della città felsinea ( 800 inserzioni individuate, 570 censite formalmente fra "escort", "trans" e boys"). In totale sono quattro le persone fermate per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, compreso un poliziotto, gente che guadagnava oltre 22 mila euro al mese (150 euro mensili era la tariffa standard per comparire su quei siti, e guai se non pagavi puntualmente : i “magnaccia” telematici ti oscuravano subito).
Quel che è certo è che i siti nazionali di cosiddette “escort” (appellativo che ha soprattutto lo scopo di aumentare le tariffe delle prestazioni delle zoccole, come si dovrebbero più propriamente chiamare) sono molto, ma molto più che quindici e le “inserzioniste” che vi appaiono un’infinità, comprese quelle operanti a Parma e dintorni.
 Un vero esercito in continua, inarrestabile crescita, un altro aspetto, l’ennesimo, di quel degrado morale i cui esempi preclari vengono proprio dall’alto (vedi le marachelle del “papi” nazionale, o i tanti deputati maschi scelti da Pubblitalia per conto del PDL solo per il loro bell’aspetto, o le ex dive dello spettacolo riciclate in Parlamento dopo varie operazioni chirurgiche in ogni parte del corpo tranne il cervello , o per ultime le veline e starlette – magari passate attraverso quello spettacolo di bassa macelleria che è il tanto decantato concorso di Miss Italia - candidate da Berlusconi addirittura a Bruxelles , prima che quella cattivona comunista della moglie – neanche le mogli le sceglie con cognizione di causa ! - gli imponesse l’alt , in tutto nella logica dello “specchietto per le allodole” spacciata per “nuovismo” ).
 
L’assessore parmigiano Lasagna, dal canto suo, dice che intende fare opera di proselitismo fra queste ragazze, per convincerle a desistere. Nel frattempo, avvisa i potenziali clienti che andandoci insieme fanno prosperare il circuito criminale che c’è dietro (anche se non tutte le ragazze di vita che lavorano a domicilio hanno dietro un protettore ufficiale malavitoso, specie quelle non stanziali, quelle cioè che dopo un po’ migrano come le cicogne per operare su altre piazze).
 
L’intento è lodevole. Dunque, auguri all’assessore! Vedremo se alle parole seguiranno i fatti. Del resto raggiungere queste ragazze è semplicissimo, basta andare sui siti in questione e chiamare i numeri che vi compaiono.
 
Oltretutto, dai commenti che si leggono talvolta su Internet gli annunci in questione sono spesso vere e proprie prese per i fondelli, corredate da foto fasulle , anche perché che non è certo nell’interesse di queste donne mettere in piazza i loro veri connotati , col rischio di farsi riconoscere per strada appena mettono il naso fuori . Dunque, il ventilato repulisti potrebbe alla fine , oltre che redimere forse – ma ne dubito - qualcuna di queste ragazze che hanno scelto di inseguire il miraggio dei soldi facili a prezzo di un degradante mestiere, fare l’interesse pure dei maschietti in calore, febbrili visitatori di quei siti, così spesso turlupinati.











 21 novembre 2009 -
 Peace, please
Peace, please

"Ecco perché i militari italiani devono rimanere in Afghanistan”, fu questa la dichiarazione del ministro della Difesa subito dopo l’attentato alla caserma Santa Barbara di Milano; “se quel paese fosse lasciato alla libera circolazione dei terroristi e dei talebani, diventerebbe una base per lanciare attacchi contro le nostre città”.
 A parte che se al posto dei nostri soldati ci fossero contingenti lituani o del Kazakistan o di Vattelapesca non credo che l’andamento della guerra cambierebbe di molto, questo è uno straordinario rovesciamento della realtà: è proprio a partire dalla nostra partecipazione alla guerra in Afghanistan che siamo entrati anche noi – come la Spagna, come l’Inghilterra, che hanno avuto già i loro morti “civili” - nel mirino di eventuali azioni “punitive” non solo del terrorismo internazionale, ma anche di singole frange di esagitati come il libico Mohamed Game.
 Né questa è l’unica conseguenza di quella improvvida iniziativa, presa in dispregio dell’art.11 della Costituzione (buona solo per dar fiato alla bocca durante i comizi come quello del presidente Bernazzoli alla festa del 4 novembre in piazza Duomo in cui ha ribadito il trito argomento della necessità dell’uso della forza in certe circostanze che viene sempre sbattuto in faccia agli astratti pacifisti da parte di questi signori che si ritengono tanto pragmatici e sono invece solo cinici, specie con la pelle altrui) :  e dove lo mettiamo lo schock collettivo per le crescenti rimpatriate di salme dei nostri soldati che ci sbattono in faccia nel modo peggiore la realtà rimossa del nostro essere in guerra?
 In generale, è stata proprio la guerra globale ed asimmetrica al terrorismo – come spiega il generale Fabio Mini, capo della missione in Kosovo (uno di quei soldati che non hanno pure il cervello “in divisa”) – a rendere paradossalmente il terrorismo un fenomeno endemico, un elemento permanente della situazione internazionale. 
Dalle scarne cronache afghane sappiamo poi che nello stesso Afghanistan c’è un significativo movimento di pace (i sondaggi dicono che il 75 per cento degli afghani sono a favore di negoziati coi talebani), tanto che sul Washington Post si legge che "quando le nuove truppe americane inviate da Obama arriveranno, troveranno due nemici a fronteggiarle: i Talebani e l’opinione pubblica afghana stanca di guerra”.
Ricordo con nostalgia il discorso d’insediamento del nostro miglior presidente della Repubblica, Sandro Pertini, applaudito – ipocritamente? – da tutte le forze politiche: “L’Italia deve essere nel mondo portatrice di pace, si svuotino gli arsenali e si colmino i granai... Il nostro popolo generoso si è sempre sentito fratello a tutti i popoli della terra“.

PS. Un “signore” che si spaccia per “ufficiale della Folgore in congedo“ ha minacciato querele a seguito della mia lettera sullo stesso argomento titolata “Che senso ha morire facendo la guerra? “ pubblicata in data 27 ottobre. Gli ho risposto per direttissima che “ ho troppo a cuore la libertà di stampa e di pensiero tutelata dall’art. 21 della Costituzione per farmi intimidire da certi energumeni dalla faccia feroce ed il cervello all’ammasso che vorrebbero seppellirci tutti sotto la cappa soffocante della loro fasulla retorica patriottarda”.



 

 23 novembre 2009

 

La crociata in difesa del crocefisso dei "cristianisti da combattimento"



Se c’è qualcosa di davvero insopportabile nella querelle sui crocefissi non è tanto la loro presenza nei luoghi pubblici, quanto piuttosto la protervia e l’arroganza di certi “cristianisti da combattimento” che imperversano in TV e sui giornali, moralmente assimilabili e speculari ai fanatici islamici.


Come quel tale Alessandro Meluzzi, che di professione fa l’onnipresente tuttologo, che – assieme alla solita, inqualificabile Santanchè - si scagliava con virulenza inaudita durante un talk show su Rai Uno, impedendogli di esporre le sue tesi, contro il giudice Luigi Tosti che, in nome della laicità dello Stato, si batte perché il crocifisso sia rimosso da tutti gli uffici pubblici, a cominciare dalle aule giudiziarie.

O quel tale che sulla Gazzetta di Parma sognava addirittura di essere un dittatore per poter impedire a chi non la pensa come lui (nel caso specifico, il Partito Radicale) di esercitare il diritto alla libertà di pensiero garantita dall’art. 21 della Costituzione.

O quella tale Irene Pivetti, inopinatamente Presidente leghista della Camera per una breve stagione, che va in giro per i talk shows a predicare la buona novella esibendo il simbolo dei reazionari della Vandea, il cuore sormontato da una croce rossa su campo bianco, proprio lei che ha condotto programmi televisivi sadomasi su temi forti come la chirurgia plastica, lei che nel 1997 si lasciò scappare un “Buttateli a mare” contro i profughi poco prima che la corvetta Sibilla ne mandasse a picco centoventi: un altro esempio preclaro di pietas cristiana.

O quegli idioti che hanno minacciato di morte gli autori del ricorso alla Corte di Strasburgo, rea di aver lapalissianamente stabilito che “lo Stato ha l’obbligo di neutralità religiosa nel contesto dell’istruzione pubblica obbligatoria in cui la partecipazione è richiesta a prescindere dalla religione“. 

Dunque, pur orfani del loro duce, don Baget Bozzo, e della loro Giovanna D’Arco, Oriana Fallaci, alla testa della crociata contro gli infedeli fino ai loro ultimi giorni, i cristianisti non demordono.

Nel loro background ci sono probabilmente quei prototipi esemplari di cristiani del passato, quale il castigliano del ’500, che in nome di Cristo si sentiva autorizzato a qualsiasi eccesso, dalla decimazione degli indios americani - considerati non-uomini e quindi non degni di vivere perché non conoscevano l’unica, vera fede, cioè quella dei conquistatori - all’Inquisizione degli eretici e ai pogrom contro gli ebrei (nei suoi confronti, i califfati di Toledo e Cordova erano oasi di tolleranza ed ecumenismo).

Oppure il lazzarone napoletano che, sotto le bandiere del cardinal Ruffo, massacrava i patrioti illuministi del 1799 in nome della “sacrosanta religione cristiana” minacciata. 


 15 dicembre 2009

Brutti, sporchi e cattivi 

Brutti, sporchi e cattivi
Nel sempre più stucchevole e indecente teatrino della politica nostrana, pare che il successo maggiore arrida soprattutto a quei teatranti che meglio sanno interpretare al ribasso i gusti attuali del pubblico o elettorato che dir si voglia.

Il quale – ben rodato dalla sconcezza e dalla plateale esibizione pubblica di sentimenti più o meno genuini, che un tempo la gente normale riservava alla propria sfera più intima e privata, di tanti programmi televisivi, in primis il “Grande fratello” e “Amici” - non si scandalizza più come un tempo per certe volgarità dei politici e dei giornalisti schierati (tipo le esibizioni “mussoliniane” di virilità celoduristica, le parolacce, le barzellette e le battute sconce, le aggressive e intemperanti esibizioni nei talk-show in cui soprattutto i giornalisti berlusconiani gareggiano alla pari con i politici berlusconiani ), un po’ per assuefazione un po’ perché – nella generale drammatica crisi di credibilità della politica - le apprezza addirittura come sintomo perlomeno della “veracità” del politico che le pronuncia.

Prendiamo i leghisti, ed in particolare il duo Calderoli-Salvini.

Guardateli, guardate Calderoli nei video di YouTube quando con un largo sorriso compiaciuto da bambino viziato mostra la maglietta anti Islam scatenando l’ira di Dio, anzi di Allah, a Tripoli e altrove…

O Salvini col ghigno mefistofelico stampato sul volto quando per esempio dice che “gli unici zingari che gli garbano sono quelli che compaiono nella Carmen di Bizet”.

Hanno dipinta sul volto la stessa espressione sadicamente soddisfatta che esibisce il grande Totò dopo una truculenta esibizione danzante in “Totò le mokò" o durante i tormentoni a cui, improvvisando, sottopone i suoi partners in scene memorabili come il duetto con l’onorevole Trombetta di “Totò a colori” (pare infatti che anche Antonio De Curtis provasse un gusto particolare nel recitare sullo schermo la parte del “cattivone”).

Quella sadica, ostentata soddisfazione, nei loro intenti, è uno sfottò nei confronti dei loro spregiatori, che probabilmente immaginano intenti a rodersi il fegato davanti allo schermo, oltre che il frutto della consapevolezza di fare da megafono a tanti che quelle cose le pensano, ma non sempre osano dirle.

Dunque, più la Lega viene definita xenofoba e razzista, rozza e volgare, più costoro gongolano, pregustando la prossima comparsata nelle ribadite vesti di “Cattivik” .

Un altro esempio clamoroso di “Cattivik” esibizionista è il direttore di “Libero” Maurizio Belpietro, che non a caso da direttore di “Panorama” teneva una rubrica intitolata “L’antipatico” : felice di esserlo e soprattutto di esibirlo, si direbbe a vederlo , sempre con quel ghigno sulle labbra che lo apparenta al duo leghista di cui sopra.

Questi sono gli uomini che la destra utilizza di preferenza e i conduttori televisivi volentieri accolgono nei loro studios , sentendo come fiere l’odore del sangue.
 Quanto al capo dei capi, il Berlusconi, ha da tempo sdoganato ogni tipo di parolacce, ma col “discorso delle palle” a Bonn ha raggiunto l’apoteosi celoduristica, staccando nuovamente i concorrenti leghisti su questo piano, anche se più che Cattivik costui recita ormai la parte di Sansone contro i filistei (e gli ipocriti alla Fini).

E l’opposizione?

Nel 2006, prima delle elezioni, commentando il “coglioni” rivolto ai potenziali elettori di sinistra, Michele Serra scriveva che “non solo gli intellettuali con la puzza sotto il naso, ma molti milioni di normalissimi cittadini (di sinistra, ma non solo), nell’opporsi a un siffatto leader, si sentono continuamente spiazzati dal progressivo incarognirsi del clima, dalla bassezza della polemica, dalla violenza puerile delle reazioni “con l’effetto naturale di sentirsi sempre più orgogliosamente, ma anche con alterigia crescente, “diversi” .

Più di recente lo stesso Serra si chiede perché si sia permesso a Bossi ed ai suoi accoliti di fare sfoggio impunemente di tutte le loro grezze e volgari intemperanze (minacce di pallottole ai giudici, di acqua di cesso al tricolore, di bergamaschi in armi contro non si sa chi, di cannonate contro i profughi), senza mai replicargli per le rime, ancora una volta, “per non abbassarsi allo stesso livello“. Sbagliato, sbagliatissimo: occorre fare capire a costoro – suggerisce il columnist o opinionista che dir si voglia de “la Repubblica” - che “all’occorrenza sappiamo essere volgari e arroganti anche noi”. Insomma, “quanno ce vo’ ce vo’ ” , come direbbero a Roma.

Anche perché tutto questo – sembra dire Serra - paga elettoralmente, come dimostra sul fronte opposto Di Pietro, che appare più credibile e autentico dei suoi concorrenti a sinistra perché anche lui “non le manda a dire” (senza però usare le parolacce di quegli altri, perché da buon meridionale conosce la pesantezza triviale di certi termini specie se pronunciati in qualche dialetto del Sud). Non a caso Fini, che non perde occasione per smarcarsi dal Berlusca e dalla Lega, sembra aver raccolto a fine novembre l’appello di Serra col suo famoso: “Uno stronzo chi è razzista". In effetti, un bello “stronzo!” gridato in diretta, a squarciagola e con tutti i sentimenti, in faccia a qualche esponente leghista o al Berlusca forse varrebbe più – sul piano del consenso - di tutte le stucchevoli esibizioni televisive degli esponenti del PD, dove battibecchi furiosi si alternano ad ammiccamenti vari come nelle migliori sceneggiate napoletane, lasciando interdetto l’elettore democratico.

Ma forse questa attitudine alla Serra, che finisce per assecondare la immoralità della morale corrente, è meglio lasciarla agli intellettuali che si sentono ancora gramscianamente “organici” ad un partito e sensibili perciò alle sue fortune elettorali.

A me continua a sembrare che la parte di un intellettuale debba essere invece quella di nobile, seppur sterile testimonianza controcorrente, secondo la lezione montanelliana e pasoliniana (definiti “i grandi diseducatori” proprio perché si opponevano alla morale in voga).



































 

 

 

 

ANNO 2010

 

 

 

Cristianismo e integralismo islamico, due estremismi speculari


untitled1.bmpIl termine “cristianisti” non è solo un arnese della polemica politico-culturale contro gli integralisti della croce opposti (ma speculari) agli integralisti della mezzaluna. Si tratta di movimenti più o meno strutturati, i cui militanti hanno precisi connotati ideologici e psicologici.
 Ecco l’identikit del perfetto cristianista secondo il sito web Kelebek : "La vera novità non è tanto la sua scelta di schieramento, quanto il pathos che ci mette. Lo spirito di militanza. E soprattutto la forte motivazione ideologico-religiosa. Dalla teologia dell’unicità di Cristo Salvatore discende un atteggiamento belligerante verso l’Islam. Dalla critica ortodossa del pelagianesimo (che esalta l’autonomia e la libertà del singolo rispetto all’autorità della gerarchia ecclesiastica, ndr ) viene l’accusa sprezzante a quei cristiani che si dedicano alle iniziative sociali in favore degli "ultimi". Dalla denuncia dell’irenismo teologico (che auspica la riunificazione delle chiese separate) si arriva all’entusiasmo (non solo approvazione, ma entusiasmo) per le spedizioni militari alleate... Fenomeno nuovo, senza dubbio, almeno relativamente agli ultimi anni. Minoritario ma non quanto si crede, perché si innesta (estremizzandole) in tendenze dottrinali e politiche che trovano spazio anche in alcuni settori della gerarchia ecclesiastica...".
L’intolleranza cristianista tende a diventare pervasiva al pari dell’integralismo islamico. Vedasi la nuova legge irlandese sulla blasfemia, che pretende di punire con ammende fino a 25 mila euro le affermazioni offensive o presunte tali contro qualsiasi credo religioso, limitando la libertà di espressione delle idee e richiamando le fatwe degli integralisti islamici come quella di Komeini contro lo scrittore Salman Rushdie ed i suoi "Versetti satanici". Io punirei piuttosto la bestemmia come s’intende comunemente, ossia l’espressione inutilmente e provocatoriamente oltraggiosa e volgare del tipo porco D..... oppure D... cane così frequente soprattutto nel linguaggio giovanile, non certo il discorso o ragionamento che neghi anche con forza icastica le verità di fede di una religione, tipo, che so, quella che fa da titolo al libro di Cristofer Hitchens "Dio non è grande" o la frase di Frank Zappa per cui "far dipendere tutto dall’idea del Tizio sulla Nuvola è un prodotto della parte animale del cervello". Ma, si sa, ai fanatici e alle gerarchie dà più fastidio questa ironia sul sacro che la bestemmia volgare ed offensiva, tesi questa che è alla base del romanzo "Il nome della rosa" di Umberto Eco, dove il fanatico frate assassino uccide proprio perché nessuno possa leggere il testo di Aristotele sulla forza distruttiva e liberatoria del riso, che distingue l’uomo dalla bestia; del resto, la realtà storica è che le autorità cristiane del basso impero romano bruciarono o nascosero varie opere di Aristotele e di altri grandi pensatori greci, ma non fecero i conti con i califfi musulmani che, conquistata l’Andalusia, ce le ritrasmisero.
 Ancora più allarmanti sono le iniziative della destra cristiana americana come le descrive lo Hedges nel suo recente "Fascisti americani. La destra cristiana e la guerra in America", in cui si fa un parallelo tra i movimenti totalitari del XX secolo e questo movimento assai organizzato, ben finanziato ed influente, impegnato addirittura a creare negli States uno Stato teocratico da esso dominato.
 In definitiva, al pari degli integralisti islamici, questi cristianisti rischiano di precipitare il mondo occidentale ai tempi della "Santa inquisizione" o come minimo a quelli che precedono la proclamazione dei diritti dell’uomo e del rispetto verso ogni idea anche se non condivisa.
 Sono dunque due estremismi speculari nelle idee e negli obiettivi finali, talmente estranei e pericolosi alla nostra civiltà da farci riflettere sull’inopportunità di essere troppo tolleranti contro la loro intolleranza .

 

 

 

 

 

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Il caso Schifani come metafora del caso Italia


Il 29 aprile 2008 Renato Schifani (nomen omen, dicevano i latini) viene eletto Presidente del Senato della Repubblica.

Nel mese di maggio Marco Travaglio pubblica una sua breve biografia sull’Unità e nel libro "Se li conosci li eviti" (scritto con Peter Gomez), rievocando certi suoi "trascorsi", ossia la sua presenza dal 1979 nella società di brokeraggio assicurativo Sicula Brokers, di cui faceva parte Enrico La Loggia, futuro politico di spicco di Forza Italia, ed altri soci come Benny D’Agostino, Giuseppe Lombardo e Nino Mandalà, tutti e tre successivamente incriminati per associazione mafiosa o concorso esterno in associazione mafiosa; nonché l’attività di consulente urbanistico all’interno del Comune di Villabate sciolto due volte per mafia (il sindaco era il nipote del suddetto Nino Mandalà, capocosca della cittadina), incarico che, a detta del mafioso pentito Francesco Campanella, ex esponente di spicco dell’UDC per il quale era fino all’arresto segretario giovanile, gli era stato assegnato nell’ambito di un patto mafia-politica.

Il 10 maggio 2008 Travaglio presenta il libro su Rai3 a "Che tempo che fa" e per l’occasione ironizza amaramente sulla parabola discendente di una carica che con Schifani avrebbe toccato il suo punto più basso (parla di "muffa" e "lombrichi", come prospettiva per il dopo), poi ricorda che già Lirio Abbate, giornalista sotto scorta per minacce mafiose, aveva rievocato quei trascorsi nel libro "I complici: tutti gli uomini di Bernardo Provenzano da Corleone al Parlamento" datato 2007 senza essere né smentito né querelato (Schifani ha chiesto la bellezza di un milione e trecentomila euro di risarcimento a Travaglio ma non ad Abbate, per il semplice motivo che i libri in Italia non li legge nessuno), né tantomeno additato al pubblico ludibrio.

Il giorno seguente Fabio Fazio si presenta in trasmissione con aria da cane bastonato e legge il comunicato di scuse del direttore RAI, aggiungendovi le sue personali per non aver impedito che fossero formulate "offese" alla seconda carica dello Stato (“Sembrava l’abiura cui erano costretti i dissidenti cinesi durante la rivoluzione culturale”, commenterà Travaglio).

Ma la stranota denuncia di Travaglio non dà l’idea del personaggio Schifani, della sua inquietante caratura, quanto quella ignota ai più di un altro giornalista, assai meno noto nonostante abbia già subito due attentati e sia senza scorta (Gianni Lannes), dalla tribuna di un recente convegno palermitano (intitolato "L’alba di una nuova Resistenza" e promosso dall’ Idv): venuto a conoscenza dell’interessamento di costui per l’ennesimo, gravissimo scempio paesaggistico nell’isola (l’illegale costruzione, sponsorizzata dal Presidente del Senato, della superstrada che
attraversa il bosco della Ficuzza, area protetta di interesse non sono naturalistico ma anche archeologico a pochi chilometri da Palermo), Schifani lo ha invitato alla Festa del Ventaglio e gli ha "gentilmente" chiesto di andare in vacanza e non occuparsi più di un opera "utile alla Sicilia" (un vero consiglio da "amico degli amici"). Lannes ha detto no, ha detto a Schifani che è organico alla mafia ed ha spedito il suo articolo alla Stampa di Torino riferendo dell’incontro. Risultato: è stato congelato dal giornale e l’inchiesta non è mai uscita.

Che un personaggio simile possa assurgere alla seconda carica dello Stato la dice lunga sulla qualità invereconda dell’intera classe politica odierna ed in particolare di quelli a cui oggi sono affidati incarichi istituzionali: questo è il problema di fondo del sistema Italia, la ragione vera per cui siamo caduti così in basso.

Da una quindicina d’anni, da quando Tangentopoli ha azzerato la classe politica preesistente e sulla scena s’è fatto avanti Berlusconi, preoccupato unicamente di circondarsi di uomini e donne senza qualità, yesmen che non facessero ombra all’unto del signore, mentre la sinistra è tuttora impelagata fino al collo in una interminabile e defatigante fase di transizione, con la zavorra di personaggi alla D’Alema impegnati solo a seminare di ostacoli (tipo esternazioni non richieste) il cammino già di per sé faticoso e incerto del macchinista di turno, si chiami Veltroni o Bersani, siamo ridotti a rimpiangere la stazza politica di personaggi come Bettino Craxi o come Claudio Martelli, per non parlare dei Berlinguer. Il tocco finale è stata la legge-porcata di Calderoli che annulla ogni possibilità che emergano figure non designate dai "leaders".

Anche il più decerebrato degli elettori del PDL non può non restare come minimo perplesso dinanzi ad una compagine governativa nella quale figurano dei Carneade inutili (nel migliore dei casi) come la Meloni o Rotondi o Calderoli o Bossi o Elio Vito (dei quali non si ricorda nemmeno una iniziativa ministeriale degna di questo nome).

O combinaguai come la Gelmini che si augura che i crediti d’imposta alle imprese le stimolino a fare una ricerca comunque "pro domo sua" e intanto non trova neanche un centesimo per la ricerca universitaria che servirebbe a tutti noi, o la Carfagna (stendiamo un velo pietoso, così copre antiche esibite nudità) o la Prestigiacomo (che si precipita per ogni dove a negare il segreto di Pulcinella e cioè che ci siano navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi affondate a centinaia, per conto di Enel, Eni, Montedison e quant’altro, dalle cosche calabre o sicule nel Mediterraneo e non solo davanti a Cetraro, a partire dalla jugoslava Cavtav colata a picco nel 1974 davanti ad Otranto, perla del basso Adriatico).

O personaggi folcloristici da varietà televisivo come Ignazio La Russa (l’ex colonnello di AN sempre più devoto a chi gli ha dato la cadrega). O "creativi" alla Tremonti, autore di uno scandaloso "scudo fiscale" (scandaloso non tanto in sé, quanto per i suoi criteri: lo scudo c’è anche all’estero, ma chi riporta i soldi in patria intanto non può nascondersi dietro l’anonimato e poi deve pagare non il cinque, ma il trenta per cento di multa!), per non parlare degli Scaiola (quello che dava del "rompicoglioni " ad un morto fresco fresco come Biagi) per la serie "a volte ritornano", o dei Fitto che fanno salti di gioia quando il giudice li rinvia a giudizio "solo" per corruzione, abuso d’ufficio, peculato e illecito finanziamento al partito, e non anche per associazione a delinquere, concussione e falso! O il neoministro alla salute Fazio promosso per avere fatto un disastro a proposito della prevenzione della febbre suina, col vaccino che arriva quando ormai il picco del contagio è superato ecc. ecc.

Non resta che sperare che il Presidente Napolitano si decida a richiamare con la dovuta severità la classe politica ed il Governo in particolare a non fare scempio ulteriore di questo povero, straziato Paese.








L’animosità dei calabresi
L'animosità dei calabresi
“ Chi ha paura muore ogni giorno,
chi ha coraggio muore una volta sola
Paolo Borsellino


I calabresi sono fatti così. Non conoscono le mezze misure.

Nella stessa persona può convivere talvolta il generoso ed il teppista, quello che ti dà l’anima e quello che ti aggredisce per un piccolo sgarbo o presunto tale (perché di solito sono assai permalosi e la permalosità è indice al tempo stesso di superego e di complesso di colpa o di inferiorità), quello che ti porta il panettone a Natale e quello che ti spara addosso alla Befana, così, tanto per passare il tempo (come quei bulli di paese a Rosarno coi fucili ad aria compressa) o perché magari sei nero e ti sei stufato di fare il nero “sì, badrone, sì, bwana“ e chinare sempre il capo e perciò non gli stai più simpatico, ed allora “fuori tutti!”, “non li vogliamo vedere più neanche in cartolina”, tanto coi neri è più facile, possono diventare a volte dei rompiscatole e far danni, sì, ma mai pericolosi ed armati di tutto punto come i mafiosi, verso i quali troppo spesso si è mostrata non solo una paura alimentata dalla pochezza delle istituzioni, ma persino la reverenza tipica di queste terre verso i padroni di turno.

Non sarebbe forse il caso di utilizzare questa animosità per una causa più degna? Per esempio per aggregarsi ai cortei dei loro conterranei del movimento anti-’ndrangheta che ha l’impareggiabile, commovente slogan “E adesso ammazzateci tutti!” apparso per la prima volta a Locri nel 2005 dopo l’omicidio Fortugno? Qui si parrà la loro nobilitate!