COSTUME E SOCIETA’
29 settembre 2008
Figli assassini
Si parla - per spiegare la genesi dei continui eventi delittuosi a carico di minori che riempiono le cronache recenti - di genitori che non trasmettono valori positivi ai propri figli o ne trasmettono piuttosto, specie con 1′ esempio, di negativi.
Ma per gli psicologi dell’età evolutiva la violenza dell’adolescente non è tanto qualcosa che si forma in lui e deflagra a causa di fattori negativi quali l’esempio dei genitori, quanto piuttosto l’esito di un blocco del suo sviluppo psichico dovuto in primo luogo al mancato apporto genitoriale.Quindi, il primo problema sembra essere quello della scarsa presenza o meglio spesso dell’assenza dei genitori dalla vita dei figli. La conferma viene dall’indagine dell’Osservatorio nazionale sulle famiglie presso il ministero del Welfare.
A fronte di dati che parlano di un venti per cento di bambini tra O e 12 anni con chiari segni di sofferenza psichica e per oltre il 50 per cento bisognosi comunque di assistenza specialistica , colpisce ad esempio che solo un’infima di genitori usufruisca dei congedi parentali , in particolare di quelli previsti dalla legge 53 del 2000 (dal primo all’ottavo anno d’età del bambino si può stare a casa per un massimo di dieci mesi di congedo riscattabile – il primo dei quali interamente retribuito - ed in ogni caso di malattia del bambino): appena il 4 per cento del totale dei dipendenti pubblici, ad esempio , nel 2004 , in particolare 2 maschi su cento (tutti o quasi concentrati nel primo mese, quello retribuito) e sei donne su cento.
Gli esperti ci dicono che questi genitori maschi, soprattutto i più giovani, vorrebbero essere di più in famiglia, ma si fanno condizionare dalla pressione sociale (in sostanza, dalla paura di essere considerati “scansafatiche” o magari addirittura irrisi per una scelta considerata tuttora “controcorrente”).
Questo nonostante la legge affermi un diritto autonomo, non alternativo a quello materno, di esercizio della paternità : niente da fare, gli uomini italiani restano fanalino di coda in Europa in termini di tempo dedicato alle cure familiari e domestiche.
Anche le lavoratrici vorrebbero in buon numero riorganizzare diversamente lavoro e famiglia a vantaggio della seconda, ma in questo caso - dicono sempre gli esperti - sono le regole di lavoro troppo rigide ad ostacolarle.
Per la verità , ci sono norme che cercano di garantire prospettive di carriera e non discriminazione anche alle donne che scelgano ad esempio il part-time, ma loro non si fidano, tanto che solo il 15, 7 % delle lavoratrici italiane sceglie questa modalità di lavoro contro una media europea del 33,5% (e meno ce n’è, meno le altre sono invogliate a sceglierlo) .
In più, a dissuadere tante donne e’é anche la voglia di non darla vinta ad un maschio che, come abbiamo visto, continua a latitare, almeno in Italia, per non ribadire una propria inferiorità. Per tante, probabilmente, questo é più forte di rimorsi, scrupoli di coscienza e pressione sociale (ancora assai forte) per un ritorno in famiglia (soprattutto da parte di madri e suocere).
Il problema è che i figli da grandi saranno probabilmente spietati nell’attribuire la fonte di tutti i loro eventuali problemi a quest’assenza genitoriale, specie materna, nei momenti cruciali dell’infanzia e dell’adolescenza . Così come per i genitori sarà raggelante, una volta andati in pensione, scoprire di non conoscere a fondo i propri figli, così come accade ad Arnoldo Foà in una commedia che si rappresenta in questi giorni a teatro.
Dunque, pensaci Giacomino ( e Giacomina) !
1 ottobre 2008
L’omosessualità, la chiesa e Di Pietro
Il Tonino nazionale ( alias Antonio Di Pietro) è indubbiamente persona di talento mediatico e fiuto politico. Non usa il politichese né si adonta più di tanto del sarcasmo dei suoi boriosi detrattori che – poveri di argomenti - ne criticano l’eloquio non particolarmente forbito ( ma efficace, al punto che uno dei suoi tormentoni preferiti, il famoso “Che c’azzecca ?” , è entrato di buon diritto nel linguaggio comune e persino nel lessico giornalistico).
Viene in mente, in proposito, il piglio disinvolto e mordace con cui Cyrano de Bergerac, a coloro che per sfotterlo alludevano alla sua ragguardevole appendice, suggeriva una funambolica sequela di possibili calembour sull’argomento, tanto per dimostrare il suo totale non cale di loro e dei loro banali sfottò.
A volte però il Nostro, nella sua naiveté, rasenta l’ingenuità.
Ad esempio, quando – di quando in quando – si chiede accoratamente, in qualcuna delle sue ormai un po’ troppo frequenti ed ubique comparsate televisive (lo si può a volte ammirare contemporaneamente in due o tre canali diversi) : “Ma perché un cristiano deve pretendere l’ostracismo per un suo simile, negargli non solo di convolare a nozze ma persino di vedersi riconosciuti diritti elementari soltanto perché omosessuale, in spregio alla regola evangelica "ama il prossimo tuo come te stesso"?
Ma benedetto Tonino, a parte che niente e nessuno può costringere un essere umano, per sua natura solipsista, ad essere altruista al punto da amare l’altro ( tanto più se connotato da un’alterità percepita come irriducibile) come se stesso, se non per libera scelta, è assai più facile che a certe considerazioni solidaristiche si approdi usando ragione e coscienza individuale, che non una fede che sull’argomento specifico è gonfia di idiosincrasie, superstizioni e fanatismi ideologici, portato di secoli bui.
Se infatti , anziché fermarsi al catechismo della prima comunione, don Tonino avesse approfondito la storia del cristianesimo, avrebbe "scoperto" che la sessuofobia, la repressione sessuale vi è connaturata persino più che nell’lslam. Tant’è che mentre questo promette un paradiso con le vergini ai virtuosi, quello - incapace di elaborare un paradiso tentante - non fa che minacciareeterne e sadiche punizioni per i recidivi della carne.
E tra i suoi bersagli preferiti c’è proprio l’omosessualità, considerata come "innaturale" perché" non riscontrabile nelle altre specie" (il che fra l’altro è del tutto inesatto).
Chisà forse un giorno, dopo aver chiesto perdono agli ebrei "deicidi", ai mussulmani per le crociate, alle vittime dell’Inquisizione - e aver pagato molte migliaia di dollari per le violenze sessuali ai minori, alla cui origine c’è l’innaturale - questo sì - celibato imposto ai preti -, la Chiesa chiederà perdono anche agli omosessuali . .
6 ottobre 2008
Muore un’anziana: effetto collaterale?
Forse dovremo cominciare a considerare eventi come la morte l’8 gennaio ad Albano della donna ottantenne per mano della badante rumena (notizia che ha avuto per inciso sui media un rilievo che non hanno notizie di segno opposto come quella della ucraina che ha rischiato la vita per salvare l’anziano accudito dalle fiamme) come effetti collaterali di un eccesso di delega di funzioni di cura a soggetti estranei al nucleo familiare.
Chi è il colpevole di questo “eccesso”? C’è non di rado una corresponsabilità dei parenti, anche i più stretti: hanno sempre meno tempo e voglia di dedicarsi ai propri vecchi - cioè a chi il suo, di tempo, glielo ha dedicato ininterrottamente, fisicamente o solo col pensiero, da quando li ha messi al mondo - né possono sentirsi giustificati dalla fatica improba che spesso quella cura comporta, specie dinanzi ad anziani in preda a demenze o Alzheimer.
Ma la responsabilità prima è dello Stato, in tutte le sue articolazioni statali e locali, che dovrebbe mettere i parenti dell’anziano nelle condizioni di occuparsene, anche a tempo pieno, se necessario, e non lo fa.
E non lo fa perché per lo Stato è meglio detassare i costi di badanti, di colf o di baby-sitter, etc, (che fanno crescere il PIL, questo moloch a cui tutto si sacrifica) che disporre di genitori - figli che non facciano mancare ai propri genitori come ai propri figli il loro insostituibile apporto.
Con effetti che a volte possono essere addirittura tragici, ma sono sempre gravemente negativi per gli uni e per gli altri.
7 ottobre 2008
Violenza sulle donne
In questa storia sempre più tragica della violenza sulle donne ad opera di mariti, fidanzati o ex ( nel 2006 sono state centododici le donne uccise da questi “amorosi assassini” , come suona il titolo di un libro “collettivo” appena uscito sull’argomento, e 4500 le denunce a CC e polizia) , le donne sono in qualche misura non solo vittime , ma anche "complici" più o meno involontarie della violenza che si consuma tra le pareti domestiche ( lo scriveva già, ma in un senso più generale, J.P. Sartre nell’introduzione al libro della consorte Simone de Beauvoir “L’altro sesso “ ) e non solo quelle provenienti da culture come quella sudamericana e di buona parte del nostro meridione, per cui l’uomo che non fa valere la propria supremazia fisica è considerato poco più di un debosciato e schernito dalle stesse rappresentati del gentil sesso .
Intanto, perché al 91,6 per cento degli stupri e al 96 per cento delle aggressioni fisiche non sessuali non segue alcuna denuncia : le donne, le ragazze emancipate, istruite, disinibite, in carriera di oggi continuano a sopportare in silenzio , come facevano le loro nonne il secolo scorso . E questo fa mancare il deterrente della giusta condanna del maschio violento. Ma c’è un altro elemento da considerare . E’ vero che in qualche sondaggio le donne intervistate dichiarano genericamente di essere sempre meno affascinate dal macho tutto muscoli e niente cervello né cuore ( dal TGcom del 20 novembre 2007 : “ Non sembrano proprio esserci dubbi: il maschio ”rude e virile”, tutto muscoli e modi alteri di chi “non deve chiedere mai” non incontra più il favore delle donne. Basta insomma con i machi alla John Wayne: ora il modello maschile per eccellenza che fa impazzire le signore è l’uomo stile George Clooney: bello e affascinante, ma soprattutto capace di parlare con le donne e ascoltarle. Insomma un uomo che non sente minacciata la sua virilità se pensa alla famiglia, gli piacciono le coccole e non si sottrae alle faccende di casa”).
Ma quando si va sul dettaglio , prevalgono altre statistiche e vecchi cliché : l ’ultima in ordine di tempo ci rivela che l’uomo con un timbro di voce baritonale ha più chance di trovare partner.
Pare poi – secondo gli psicologi - che l’uomo di potere sia non soltanto considerato un buon partito dalle donne, ma addirittura “sessualmente attraente “ , anche se non è un Adone ! Insomma, ci vanno a letto volentieri , mica solo per circuirlo e farci magari carriera in politica ( come, a dar retta a qualche comico maligno tipo la Guzzanti e non solo, avrebbe fatto la Carfagna con Berlusconi ) !
Se le donne fossero capaci di spazzar via una volta per tutte questi vetusti cliché, cui paiono tuttora tenacemente attaccate, valorizzando unicamente nell’altro doti di tenerezza, di capacità di ascolto etc. sarebbero probabilmente assai meno segnate da questo destino di violenza, che altrimenti pare ineluttabile.
Tutto questo però alle “pasionarie” del Partito delle libertà” non interessa proprio : loro anzi difendono a spada tratta – contro gli stessi detrattori uomini del tipo Nicky Vendola - la mentalità da “macho conquistador” del loro Silvio.
10 ottobre 2008
Non criminalizziamo gli Ultras
La criminalizzazione tout court degli ultras, di tutti gli ultras, senza prima chiedersi chi e cosa c’è sotto questo fenomeno e questa escalation di violenza, insomma senza prima cercare di capire sarà pure comprensibile, ma non è utile.
Intanto, non è accettabile che questa criminalizzazione venga proprio da chi l’ha voluta e perseguita a tutti i costi, cioè i giornalisti sportivi con le loro cronache sempre sopra le righe, anche quando ora attaccano gli ultras al grido di “Linciateli!” o qualcosa del genere.
E non parlo solo di quelli delle radio private e locali, vedasi la compagnia di giro di quelli del Processo del lunedì, che agli ordini di Biscardi, a sua volta agli ordini di Moggi, hanno per anni imperversato in TV e continuano ancora, incredibilmente, come se niente fosse successo, a farlo – con qualche defezione e molti nuovi acquisti di prestigio (si fa per dire) come l’ineffabile “onorevole” (si fa per dire) Taormina - da schermi solo un po’ più periferici, a drogare il calcio con toni e parole forti, con esasperanti, assurde, minuziosissime moviole-autopsie di un cadavere qual’è la partita già giocata). Il tutto al solo scopo “di acchiappare audience, qualche soldo e qualche brandello di notorietà, senza capire, fino a quando non gli esplode in faccia, di maneggiare non chiacchiere, ma nitroglicerina” (cito da Vittorio Zucconi).
E forse un qualche atto di contrizione dovrebbero farlo anche coloro che si scagliano ora contro i teppisti, ma tutte le domeniche, nei più infimi campetti di periferia, smettono i loro abiti di genitori-allenatori con funzione di educatori dei loro figli-atleti a rischio e vestono loro stessi quelli di esasperati ultras, stimolando anche la slealtà e la violenza di quindicenni che già picchiano come grandi, come se si disputassero qualche coppa intercontinentale.
Intanto, non è accettabile che questa criminalizzazione venga proprio da chi l’ha voluta e perseguita a tutti i costi, cioè i giornalisti sportivi con le loro cronache sempre sopra le righe, anche quando ora attaccano gli ultras al grido di “Linciateli!” o qualcosa del genere.
E non parlo solo di quelli delle radio private e locali, vedasi la compagnia di giro di quelli del Processo del lunedì, che agli ordini di Biscardi, a sua volta agli ordini di Moggi, hanno per anni imperversato in TV e continuano ancora, incredibilmente, come se niente fosse successo, a farlo – con qualche defezione e molti nuovi acquisti di prestigio (si fa per dire) come l’ineffabile “onorevole” (si fa per dire) Taormina - da schermi solo un po’ più periferici, a drogare il calcio con toni e parole forti, con esasperanti, assurde, minuziosissime moviole-autopsie di un cadavere qual’è la partita già giocata). Il tutto al solo scopo “di acchiappare audience, qualche soldo e qualche brandello di notorietà, senza capire, fino a quando non gli esplode in faccia, di maneggiare non chiacchiere, ma nitroglicerina” (cito da Vittorio Zucconi).
E forse un qualche atto di contrizione dovrebbero farlo anche coloro che si scagliano ora contro i teppisti, ma tutte le domeniche, nei più infimi campetti di periferia, smettono i loro abiti di genitori-allenatori con funzione di educatori dei loro figli-atleti a rischio e vestono loro stessi quelli di esasperati ultras, stimolando anche la slealtà e la violenza di quindicenni che già picchiano come grandi, come se si disputassero qualche coppa intercontinentale.
Ma, soprattutto, non si deve criminalizzare, perché è proprio questa criminalizzazione che fa innalzare ulteriormente i livello dello scontro, proliferare gli atteggiamenti criminali, gli attacchi ai poliziotti e ad ogni autorità costituita dopo aver scritto sui muri, anche a Parma, “polizia boia” o “basta diffide” o frasi roboanti ed imbecilli come “Se ci dimezzeranno, ci salverà l’onore” degne di miglior causa, per finire ai “10, 100, 100 Raciti“ di questi giorni, scritte che un tempo non si leggevano da nessuna parte e tantomeno a Parma, perché ci si concentrava di preferenza contro la squadra avversaria con scritte come “Reggio merda” o “Forza Vesuvio” contro i tifosi napoletani cui questi replicavano ad esempio con un divertente “Giulietta è una zoccola” contro i veronesi - si è demonizzata una città intera, Verona, definita “sentina del tifo più razzista e becero d’Italia” - cosa che uno scrittore anglo-veronese come Tom Parks che s’è occupato del fenomeno nel suo “Questa pazza fede” nega sia vero in assoluto.
Se io continuo a dire che gli ultras sono tutti teppisti e criminali, costringo anche quelli tra loro che non lo sono a diventarlo. Si vogliono criminalizzare anche gli ultras di città meno violente di Catania, Napoli o Bergamo, come gli ultras nostrani?
Come scrive il sociologo A.Roversi: “I continui attacchi criminalizzanti dei mezzi di comunicazione e dell’opinione pubblica, che considerano tutti i tifosi organizzati come degli ubriaconi, dei drogati, dei disadattati e degli emarginati, degli assassini hanno ormai da tempo relegato il problema del teppismo calcistico ad un semplice problema di ordine pubblico, quando trattasi invece più propriamente di un problema giovanile con più vaste implicazioni sociali, psicologiche e culturali e come tale dovrebbe essere trattato, affiancando a repressive misure di polizia (valide nell’immediato) programmi di intervento basati su una diversa ottica di medio e lungo periodo“. Se non è già tardi.
Ed è scandaloso che nei programmi del governo ci sia solo repressione, repressione e ancora repressione, niente di costruttivo, di educativo, con la stessa logica con cui Bush continua la sua guerra privata in Iraq.
Se io continuo a dire che gli ultras sono tutti teppisti e criminali, costringo anche quelli tra loro che non lo sono a diventarlo. Si vogliono criminalizzare anche gli ultras di città meno violente di Catania, Napoli o Bergamo, come gli ultras nostrani?
Come scrive il sociologo A.Roversi: “I continui attacchi criminalizzanti dei mezzi di comunicazione e dell’opinione pubblica, che considerano tutti i tifosi organizzati come degli ubriaconi, dei drogati, dei disadattati e degli emarginati, degli assassini hanno ormai da tempo relegato il problema del teppismo calcistico ad un semplice problema di ordine pubblico, quando trattasi invece più propriamente di un problema giovanile con più vaste implicazioni sociali, psicologiche e culturali e come tale dovrebbe essere trattato, affiancando a repressive misure di polizia (valide nell’immediato) programmi di intervento basati su una diversa ottica di medio e lungo periodo“. Se non è già tardi.
Ed è scandaloso che nei programmi del governo ci sia solo repressione, repressione e ancora repressione, niente di costruttivo, di educativo, con la stessa logica con cui Bush continua la sua guerra privata in Iraq.
13 ottobre 2008
Vite non parallele. Il mestiere del giornalista
Morando Morandini (quello del famoso, omonimo “Dizionario dei film “) ha dichiarato che “fare il critico cinematografico gli ha evitato di dover fare il giornalista, mestiere decaduto e degradato al pari dell’intera società “ (per farsene un’idea, consiglio la lettura del pamphlet di Marco Travaglio “ La scomparsa dei fatti” ).
Questa la dirittura morale di un uomo che preferisce rinunciare ad una professione a lui congeniale pur di non dover piegare la schiena.
Propongo di confrontare questa dichiarazione con quelle rilasciate da uno che il mestiere di giornalista lo fa , e senza tante remore, da anni, ossia il direttore dalla Gazzetta di Parma Giuliano Molossi: “Il nostro padrone è l’Unione Parmense degli industriali, lo sanno tutti. Per questo è ovvio che, per volere della proprietà, dobbiamo tacere alcune notizie (..) Nessuna mezza verità, nessuna bugia, ma solo l’occultamento di alcune verità “.
Dunque, l’uno ringrazia il cielo per non aver dovuto sporcarsi le mani e la coscienza nella melma mediatica nostrana e l’altro confessa candidamente e senza un minimo di resipiscenza di essere un gazzettiere al servizio di qualche potente baronetto locale (con la tacita approvazione - presumo - di tutti i benpensanti parmigiani, che non sembrano sconvolti più di tanto di avere come unica fonte d’informazione locale poco più del gazzettino ufficiale di un’istituzione privata, ossia l’Unione Industriali di Parma).
Il tutto in barba alla legge n. 69 del 1963 sull’ordinamento della professione di giornalista che all’articolo 2 stabilisce che “è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui, ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservare sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede" nonché “promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e la fiducia tra la stampa ed i lettori”.
Insomma, roba da far rivoltare nella tomba pure il padre del Giuliano, Baldassarre Molossi, che da autentico montanelliano mai si sarebbe lasciato andare a sbracamenti così plateali.
Questa la dirittura morale di un uomo che preferisce rinunciare ad una professione a lui congeniale pur di non dover piegare la schiena.
Propongo di confrontare questa dichiarazione con quelle rilasciate da uno che il mestiere di giornalista lo fa , e senza tante remore, da anni, ossia il direttore dalla Gazzetta di Parma Giuliano Molossi: “Il nostro padrone è l’Unione Parmense degli industriali, lo sanno tutti. Per questo è ovvio che, per volere della proprietà, dobbiamo tacere alcune notizie (..) Nessuna mezza verità, nessuna bugia, ma solo l’occultamento di alcune verità “.
Dunque, l’uno ringrazia il cielo per non aver dovuto sporcarsi le mani e la coscienza nella melma mediatica nostrana e l’altro confessa candidamente e senza un minimo di resipiscenza di essere un gazzettiere al servizio di qualche potente baronetto locale (con la tacita approvazione - presumo - di tutti i benpensanti parmigiani, che non sembrano sconvolti più di tanto di avere come unica fonte d’informazione locale poco più del gazzettino ufficiale di un’istituzione privata, ossia l’Unione Industriali di Parma).
Il tutto in barba alla legge n. 69 del 1963 sull’ordinamento della professione di giornalista che all’articolo 2 stabilisce che “è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui, ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservare sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede" nonché “promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e la fiducia tra la stampa ed i lettori”.
Insomma, roba da far rivoltare nella tomba pure il padre del Giuliano, Baldassarre Molossi, che da autentico montanelliano mai si sarebbe lasciato andare a sbracamenti così plateali.
giovedì 16 ottobre 2008
Piccoli Berlusconi crescono
Per la serie “Piccoli Berlusconi crescono“: in un’epoca di grande spolvero berlusconiano, gli imitatori proliferano .
In quel di Parma, per esempio – pur avendo perso per strada per ragioni anagrafiche e giudiziarie un paio di emuli del cavaliere, ossia Pietro Barilla e Calisto Tanzi (anche loro, ovviamente, “caballeros”, sicuramente di diversa stazza morale e capacità imprenditoriali, ma accomunati dal vizietto della tangente) vantiamo un piccolo Berlusconi fatto in casa, cioè uno che –c ome quell’altro – s’è fatto strada con metodi spicci e sbrigativi, pur opponendo alla visibilità berlusconiana un assoluto understatement che - senza scomodare pletore di avvocati fidati, giudici prezzolati, e magari leggi ad personam – gli ha permesso ugualmente di passare praticamente indenne da tante bufere: Paolo Pizzarotti.
Di quello (Berlusconi) si narra che da piccolo studentello si faceva pagare le copie dei compiti in classe, di questo (Pizzarotti) che a soli diciannove anni, già bramoso di intrapresa, si fa emancipare dal Tribunale per assumere la titolarità della fabbrica fondata dal padre.
Queste le successive tappe del suo “cursus honorum”: nell’anno domini 1992 incappa nell’inchiesta dei giudici di Tangentopoli sui lavori per “Malpensa 2000” (l’aeroporto che sarà inaugurato nel 1998), che si è aggiudicato insieme ad una nutrita compagine di imprese, alcune pubbliche, messe su grazie al miliardo e trecento milioni di tangenti versate alla Democrazia Cristiana.
L’anno dopo, nell’ambito del filone “bergamasco” dell’indagine in corso sull’Anas a livello nazionale, Pizzarotti, la cui impresa si è aggiudicata l’appalto Anas per la costruzione del by pass stradale fra Lenna e Piazza Brembana, un affare da 60 miliardi, interrogato per chiarire se siano state versate tangenti, fa il nome dei due parlamentari “passati all’incasso”, uno democristiano e l’altro socialista.
Assolto in seguito per le tangenti Enel (nello stesso processo in cui viene condannato Bettino Craxi), nonché per le presunte irregolarità relative agli appalti per la strada Ofantina, dove è coimputato con il Dc Angelo Sanza, nel settembre del ’94 Paolo Pizzarotti saldo il conto di Malpensa 2000, concordando coi giudici della sesta sezione penale di Milano una pena di un anno e un mese, oltre a 560 milioni di risarcimento, per le tangenti pagate per aggiudicarsi i lavori.
IL 2 dicembre 1994 esce un articolo del settimanale "L’Espresso” dal titolo “Mani Pulite/Esclusivo: Il caso Concari : “Prandini, io ti accuso”.
Vi si parla della morte del costruttore Piero Concari avvenuta il 12 ottobre 1994. Emerge, tra l’altro, che il suddetto, quarantotto ore prima di suicidarsi proprio nel quartier generale della Impresa Pizzarotti, e cioè il 10 ottobre, aveva presentato al Sostituto Procuratore della Repubblica di Parma, dottor Francesco Saverio Brancaccio, un memoriale contenente pesanti bordate contro il costruttore Paolo Pizzarotti, contro l’ex Ministro dei Lavori Pubblici Giovanni Prandini e contro il suo proconsole in Emilia Franco Bonferroni.
Nel memoriale si faceva riferimento ad un brevetto che sarebbe stato messo a punto prima di morire dal Concari, brevetto che – a detta anche di un senatore leghista, Luigi Copercini, anche lui imprenditore parmense nel ramo delle fondamenta per costruzioni - “non poteva fare felici gli eventuali nemici o concorrenti di Concari, un uomo vecchio stampo che non amava le cose poco chiare".
Il memoriale verrà poi inviato da sette senatori della Lega Nord in allegato ad un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura, alla Procura Generale di Roma e al Ministero della Giustizia, “per evitare che cada nel dimenticatoio".
Nell’esposto si definisce tra l’altro la morte del Concari come “presunto suicidio”, quindi si spiegano le ragioni del dissesto delle sue società, ossia un intreccio politico affaristico che trova riscontro in numerose notizie di stampa, interrogazioni parlamentari e finanche sentenze di Tribunale; si precisa che la Soc. Pizzarotti S.p.A. e la Soc. Incisa S.p.A. sono capofila di numerosi lavori che si svolgono in tutta Italia e in particolare quelli relativi alla realizzazione, in concessione ANAS, della "Ghiare-Bertorella" più volte citata negli appunti dell’imprenditore scomparso; si afferma che è di dominio pubblico che il Sostituto procuratore Brancaccio ha assidue frequentazioni personali con il dottor Paolo Pizzarotti della omonima azienda e con il ragionier Beniamino Ciotti manager del gruppo Ligresti & Gavio e quindi in Parma referente della Incisa S.p.A. e che è pure di pubblico dominio tutta una serie di "fallimenti" sospetti di imprese e aziende parmigiane, che molti sostengono non riconducibili ad uno stato di sofferenza della economia e con procedure definite dagli stessi bene informati "sospette"; e si conclude proponendo l’intervento di ispettori ministeriali, ad evitare ogni sospetto di inquinamento ambientale .
Il Pizzarotti cita tutti quanti, senatori autori dell’esposto e giornalisti dell’Espresso per danni materiali, morali e biologici.
La Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato stabilirà poi nel gennaio 2000 che i senatori hanno esercitato funzioni inerenti al loro mandato parlamentare.
A movimentare ulteriormente gli anni ‘90 della Pizzarotti, e poi anche quelli seguenti, c’è il filone dei pentiti della camorra. Comincia Pasquale Galasso, che fa intuire un sottile gioco estorsivo orchestrato tra notabili democristiani, da una parte, e boss come Raffaele Cutolo, prima, e Carmine Alfieri, poi, dall’altra. La conferma arriva nel 2003, quando la Dia di Napoli si accorge che la camorra imprenditrice dei casalesi, con fortissimi interessi nell’edilizia, è riuscita a estorcere denaro anche a imprese di livello nazionale come la Pizzarotti e a imporre omertà a tecnici che lavorano in zone del Paese diverse da quelle tradizionalmente controllate dalle organizzazioni criminali. Si scopre che un ingegnere della Pizzarotti, Giovanni Negro, è stato schiaffeggiato da un camorrista così violentemente da riportare la perforazione di un timpano, mentre il responsabile locale della società è stato addirittura prelevato e portato al cospetto del boss Francesco Bidognetti (“Cicciotto e’ mezzanotte”), che impone di affidare i subappalti a imprese gradite alla camorra ( proprio in quel periodo il ministro Pietro Lunardi, amico di Pizzarotti e come lui nato nella patria dei prosciutti, diventa famoso per l’invito a «convivere con la mafia»).
Fosse diventata legge allora, la proposta recente del sottosegretario Mantovano di togliere l’appalto a chi non denuncia le ingerenze mafiose, sarebbe stata una bella lezione per i Pizzarotti di turno, sempre pronti a tutti compromessi.
E il bello deve ancora venire, c’è alle viste la madre di tutti gli appalti, quello del ponte sullo Stretto. L’uomo del Ponte è la vecchia cariatide della politica democristiana Giuseppe Zamberletti, messo a capo della società pubblica “Stretto di Messina SpA” , ma nello stesso tempo anche capo dell’IGI - Istituto Grandi Infrastrutture, una potente lobby travestita da centro di studi e ricerche in campo ingegneristico e infrastrutturale, nel cui consiglio di amministrazione ci sono gli esponenti di tutte le più grandi imprese di costruzioni italiane, Pizzarotti compreso, ed anche di determinati istituti bancari. In altre parole, l’ennesimo conflitto d’interessi : come non bastasse la più che probabile alleanza tra Cosa Nostra ed ‘Ndrangheta per spartirsi appalti e subappalti, magari coi soliti metodi e contando sulla solità omertà.
In quel di Parma, per esempio – pur avendo perso per strada per ragioni anagrafiche e giudiziarie un paio di emuli del cavaliere, ossia Pietro Barilla e Calisto Tanzi (anche loro, ovviamente, “caballeros”, sicuramente di diversa stazza morale e capacità imprenditoriali, ma accomunati dal vizietto della tangente) vantiamo un piccolo Berlusconi fatto in casa, cioè uno che –c ome quell’altro – s’è fatto strada con metodi spicci e sbrigativi, pur opponendo alla visibilità berlusconiana un assoluto understatement che - senza scomodare pletore di avvocati fidati, giudici prezzolati, e magari leggi ad personam – gli ha permesso ugualmente di passare praticamente indenne da tante bufere: Paolo Pizzarotti.
Di quello (Berlusconi) si narra che da piccolo studentello si faceva pagare le copie dei compiti in classe, di questo (Pizzarotti) che a soli diciannove anni, già bramoso di intrapresa, si fa emancipare dal Tribunale per assumere la titolarità della fabbrica fondata dal padre.
Queste le successive tappe del suo “cursus honorum”: nell’anno domini 1992 incappa nell’inchiesta dei giudici di Tangentopoli sui lavori per “Malpensa 2000” (l’aeroporto che sarà inaugurato nel 1998), che si è aggiudicato insieme ad una nutrita compagine di imprese, alcune pubbliche, messe su grazie al miliardo e trecento milioni di tangenti versate alla Democrazia Cristiana.
L’anno dopo, nell’ambito del filone “bergamasco” dell’indagine in corso sull’Anas a livello nazionale, Pizzarotti, la cui impresa si è aggiudicata l’appalto Anas per la costruzione del by pass stradale fra Lenna e Piazza Brembana, un affare da 60 miliardi, interrogato per chiarire se siano state versate tangenti, fa il nome dei due parlamentari “passati all’incasso”, uno democristiano e l’altro socialista.
Assolto in seguito per le tangenti Enel (nello stesso processo in cui viene condannato Bettino Craxi), nonché per le presunte irregolarità relative agli appalti per la strada Ofantina, dove è coimputato con il Dc Angelo Sanza, nel settembre del ’94 Paolo Pizzarotti saldo il conto di Malpensa 2000, concordando coi giudici della sesta sezione penale di Milano una pena di un anno e un mese, oltre a 560 milioni di risarcimento, per le tangenti pagate per aggiudicarsi i lavori.
IL 2 dicembre 1994 esce un articolo del settimanale "L’Espresso” dal titolo “Mani Pulite/Esclusivo: Il caso Concari : “Prandini, io ti accuso”.
Vi si parla della morte del costruttore Piero Concari avvenuta il 12 ottobre 1994. Emerge, tra l’altro, che il suddetto, quarantotto ore prima di suicidarsi proprio nel quartier generale della Impresa Pizzarotti, e cioè il 10 ottobre, aveva presentato al Sostituto Procuratore della Repubblica di Parma, dottor Francesco Saverio Brancaccio, un memoriale contenente pesanti bordate contro il costruttore Paolo Pizzarotti, contro l’ex Ministro dei Lavori Pubblici Giovanni Prandini e contro il suo proconsole in Emilia Franco Bonferroni.
Nel memoriale si faceva riferimento ad un brevetto che sarebbe stato messo a punto prima di morire dal Concari, brevetto che – a detta anche di un senatore leghista, Luigi Copercini, anche lui imprenditore parmense nel ramo delle fondamenta per costruzioni - “non poteva fare felici gli eventuali nemici o concorrenti di Concari, un uomo vecchio stampo che non amava le cose poco chiare".
Il memoriale verrà poi inviato da sette senatori della Lega Nord in allegato ad un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura, alla Procura Generale di Roma e al Ministero della Giustizia, “per evitare che cada nel dimenticatoio".
Nell’esposto si definisce tra l’altro la morte del Concari come “presunto suicidio”, quindi si spiegano le ragioni del dissesto delle sue società, ossia un intreccio politico affaristico che trova riscontro in numerose notizie di stampa, interrogazioni parlamentari e finanche sentenze di Tribunale; si precisa che la Soc. Pizzarotti S.p.A. e la Soc. Incisa S.p.A. sono capofila di numerosi lavori che si svolgono in tutta Italia e in particolare quelli relativi alla realizzazione, in concessione ANAS, della "Ghiare-Bertorella" più volte citata negli appunti dell’imprenditore scomparso; si afferma che è di dominio pubblico che il Sostituto procuratore Brancaccio ha assidue frequentazioni personali con il dottor Paolo Pizzarotti della omonima azienda e con il ragionier Beniamino Ciotti manager del gruppo Ligresti & Gavio e quindi in Parma referente della Incisa S.p.A. e che è pure di pubblico dominio tutta una serie di "fallimenti" sospetti di imprese e aziende parmigiane, che molti sostengono non riconducibili ad uno stato di sofferenza della economia e con procedure definite dagli stessi bene informati "sospette"; e si conclude proponendo l’intervento di ispettori ministeriali, ad evitare ogni sospetto di inquinamento ambientale .
Il Pizzarotti cita tutti quanti, senatori autori dell’esposto e giornalisti dell’Espresso per danni materiali, morali e biologici.
La Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato stabilirà poi nel gennaio 2000 che i senatori hanno esercitato funzioni inerenti al loro mandato parlamentare.
A movimentare ulteriormente gli anni ‘90 della Pizzarotti, e poi anche quelli seguenti, c’è il filone dei pentiti della camorra. Comincia Pasquale Galasso, che fa intuire un sottile gioco estorsivo orchestrato tra notabili democristiani, da una parte, e boss come Raffaele Cutolo, prima, e Carmine Alfieri, poi, dall’altra. La conferma arriva nel 2003, quando la Dia di Napoli si accorge che la camorra imprenditrice dei casalesi, con fortissimi interessi nell’edilizia, è riuscita a estorcere denaro anche a imprese di livello nazionale come la Pizzarotti e a imporre omertà a tecnici che lavorano in zone del Paese diverse da quelle tradizionalmente controllate dalle organizzazioni criminali. Si scopre che un ingegnere della Pizzarotti, Giovanni Negro, è stato schiaffeggiato da un camorrista così violentemente da riportare la perforazione di un timpano, mentre il responsabile locale della società è stato addirittura prelevato e portato al cospetto del boss Francesco Bidognetti (“Cicciotto e’ mezzanotte”), che impone di affidare i subappalti a imprese gradite alla camorra ( proprio in quel periodo il ministro Pietro Lunardi, amico di Pizzarotti e come lui nato nella patria dei prosciutti, diventa famoso per l’invito a «convivere con la mafia»).
Fosse diventata legge allora, la proposta recente del sottosegretario Mantovano di togliere l’appalto a chi non denuncia le ingerenze mafiose, sarebbe stata una bella lezione per i Pizzarotti di turno, sempre pronti a tutti compromessi.
E il bello deve ancora venire, c’è alle viste la madre di tutti gli appalti, quello del ponte sullo Stretto. L’uomo del Ponte è la vecchia cariatide della politica democristiana Giuseppe Zamberletti, messo a capo della società pubblica “Stretto di Messina SpA” , ma nello stesso tempo anche capo dell’IGI - Istituto Grandi Infrastrutture, una potente lobby travestita da centro di studi e ricerche in campo ingegneristico e infrastrutturale, nel cui consiglio di amministrazione ci sono gli esponenti di tutte le più grandi imprese di costruzioni italiane, Pizzarotti compreso, ed anche di determinati istituti bancari. In altre parole, l’ennesimo conflitto d’interessi : come non bastasse la più che probabile alleanza tra Cosa Nostra ed ‘Ndrangheta per spartirsi appalti e subappalti, magari coi soliti metodi e contando sulla solità omertà.
18 ottobre 2008
Il prototipo della società razzista
Egoisticamente concentrati sulle nostre vere o presunte – e mediaticamente esasperate - esigenze di sicurezza, non ci accorgiamo che stiamo coltivando in laboratorio un prototipo che ci darà molto filo da torcere per gli anni a venire.
La cavia utilizzata sempre più spesso per il rischioso esperimento ha le caratteristiche del ragazzo ghanese pestato al parco Falcone – Borsellino di Parma o del giovane di Milano sprangato a morte da due pregiudicati per un pacco di biscotti, oppure – allargando l’orizzonte - del giovane brasiliano scambiato per terrorista, braccato come in una spietata caccia alla volpe e ucciso qualche anno fa nella metropolitana di Londra: giovane, appunto, poco più che adolescente, nato o cresciuto in Italia, padrone della lingua italiana, ma di origine extracomunitaria e di solito dai caratteri somatici “particolari”, che magari vive già per conto suo la sua “diversità” – a volte più percepita che reale – con qualche disagio.
Ecco, col clima che s’è creato grazie alle parole d’ordine della “tolleranza zero” e del “no al buonismo” (dove si scambia per buonismo quello che invece è da noi solo disorganizzazione burocratica e incapacità di gestire con efficienza, oltre che correttamente e oculatamente, senza eccessi né di un tipo né dell’altro, le situazioni potenzialmente eversive della convivenza civile) costoro finiscono per sentirsi sempre più diversi, percependo la loro diversità come un ingiusto destino, una condanna o qualcosa del genere, preda quindi di un complesso di persecuzione che esaspera ai loro occhi ogni sia pur lontana e vaga parvenza di discriminazione o di emarginazione nei loro confronti.
Immaginiamo quindi cosa può provare un soggetto del genere se finisce vittima di una maldestra (come minimo) operazione di polizia come quella di Parma (che deve apparirgli come la prova provata, definitiva, della discriminazione razziale nei suoi confronti): rabbia, una grandissima rabbia, per il dolore fisico ma soprattutto per quello psicologico, che si accentuerebbe vieppiù se non seguisse alcuna punizione.
Si sta creando così un corto circuito, non c’è da meravigliarsi se i soggetti a rischio comincino a circolare col coltello in tasca, pronti a reagire violentemente ad ogni maldestro controllo di polizia, ma anche a manifestazioni più blande di discriminazione vera o presunta.
Delle vere e proprie mine vaganti, questo stiamo fabbricando per le vie delle nostre città (l’unica speranza, a questo punto, sono le redzore, le buone signore non più giovanissime che si approcciano a questi ragazzi senza inibizioni, quasi animate da quella volontà di integrazione, di pacificazione sociale che manca nei fatti ai livelli superiori).
Ma vogliamo che si incendino anche da noi le banlieue come a Parigi ed in tutta Francia qualche anno fa’ ?
20 ottobre 2008
Le città di provincia italiane: Parma
A suo tempo qualcuno (il giornalista Pino Corrias, fra gli altri, nel libro “Vicini da morire”) additò a concausa del delitto di Erba (quello dei coniugi diabolici sterminatori dei vicini) il contesto ambientale in cui queste vite tragicamente sole e inutili si esaltano ed esasperano: luoghi deprivati di senso, di storia, ridotti a puri dormitori, magari di lusso, tipo le famose MilanoDue e tre coi patetici laghetti e le ochette, luoghi dove il “buon" senso comune cataloga pigramente come “una brava persona” chiunque, con poco rispetto di se’ stesso e del proprio tempo di vita, trascorra senza soluzione di continuità le sue giornate tra il lavoro per dieci, dodici ore filate e la Tv in poltrona, fino a che non “da di matto” e ce lo ritroviamo “a sorpresa” nei panni di assatanato assassino.
Questa deprivazione di senso – dopo le metropoli (Milano è da tempo in preda ad una fortissima crisi identitaria) - coinvolge ormai anche gli abitanti delle città di piccole dimensioni, quelle che una volta si definivano “a misura d’uomo” o “isole felici “, città apparentemente tranquille ed operose come Parma (in cui, nell’ annus horribilis 2006, si registrano quattro omicidi efferati, tra cui quello del piccolo Tommy di soli sei mesi d’età e di una ragazzina di sedici anni massacrata con centinaia di coltellate) o la vicina Brescia (dove nell’arco di poco più di 15 giorni, dall’11 al 28 agosto 2006, si verificano ben sette omicidi), nelle quali non a caso si sono verificate ultimamente – di preferenza – queste mattanze.
E questo non solo per la presenza sempre più massiccia di “stranieri” (circa nove su cento è il rapporto nella ex città “ducale”, e diciassette su cento a Brescia, la più alta media d’Italia). Già prima che arrivassero , l’impronta decisiva della vita solidale dei borghi si era persa nei microcosmi unifamiliari; come quella dei vari punti d’aggregazione non corporativa (non c’è osmosi fra i vari gruppi e gruppetti, anzi una chiusura sempre più netta agli “estranei”, con rigide regole di accesso).
Così la trama del commercio “popolare”, per rezdore di poche pretese vogliose non solo di shopping compulsivo, viene spazzata via da una “centrocommercializzazione” in stile anglosassone che oltretutto moltiplica il traffico d’accesso.
Così il territorio agricolo della celebrata Food Valley - dove non a caso gli eredi dell’ex sindaco Ubaldi, l’inventore della città cantiere, che governano il Comune all’insegna di calce e mattoni, trovano ora una sponda nel ricandidatosi presidente democratico della provincia, Bernazzoli per un’embrasse nous cementizio - viene avviato gradualmente alla totale cementizzazione, prevista di questo passo a metà secolo.
Persino lo skyline della città viene violentato da opere fuori scala come il ponte di Calatrava ad ovest o la futura metropolitana. E intanto si cerca di far fuori le memorie residue di una città cui già agli inizi del Novecento furono sottratte le spettacolari mura, identiche a quelle che fanno la fortuna turistica di città “gemelle” come Lucca, trasformando in albergo, negozi e residence l’Ospedale Vecchio, palazzo che da ottocento anni veglia sulla città, sede dell’archivio che raccoglie i secoli di un ducato e carte di scrittori, storici e poeti come Attilio Bertolucci. Nel frattempo, il mito della Pechino d’Italia è sempre più insidiato da una milanesizzazione forzata del traffico.
Ai governanti di Parma tutto questo, compresi i fatti eclatanti dell’anno horribilis 2006, così come per altro verso l’exploit della litigiosità giudiziaria condominiale segnalata dalle cancellerie, forse un effetto indotto dei fenomeni di cui sopra, lascia indifferenti . A loro interessa solo – come si espresse a suo tempo l’Ubaldi – “evitare che Parma diventi solo il buen retiro dei pensionati" (ma non risulta che Parma possa ambire a diventare una novella Saint-Tropez ed il Lungoparma la Costa Azzurra).
22 ottobre 2008
Beneficenza for profit
Intorno alla cosiddetta “beneficenza” fiorisce un business che nulla ha da invidiare, in termini di fatturato, mezzi ed operatori a quello delle maggiori imprese nazionali.
La corporazione dei professionisti della caccia all’obolo s’è infatti organizzata su scala industriale: in Parma ci sono decine di ditte la cui unica ragione sociale è spillare quattrini al prossimo in nome di invalidi, malati, moribondi, alcolisti o drogati in via di redenzione, bimbi e cani abbandonati, alluvionati, mutilati di guerra etc. etc.: una lista suscettibile di infinite variazioni sul tema.
Mettere su quest’impresa di questo tipo non è affatto dispendioso: basta un localino, un paio di telefoniste possibilmente dalla voce suadente ed un solerte fattorino incaricato del ritiro a domicilio del denaro.
La modalità adottata di preferenza è quella dello spettacolino con artisti non di primissimo piano organizzato in qualche sala parrocchiale per conto di qualcuna delle infinite sigle del settore (che prestano il loro “marchio” per modiche cifre): l’offerta – in questo modo – sarà più consistente, anche se il beneficiante difficilmente si recherà in sala per assistere alla messa in scena – nella data indicata sul biglietto, collocata ovviamente in prossimità della fine della campagna di raccolta.
Alla fine dei conti, buona parte del “raccolto” finirà nell’ordine: al titolare della ditta, alle telefoniste, al fattorino o fattorini (che di regola prendono l’un per cento di quanto raccolgono), agli “artisti”, a chi affitta il teatro e alla sigla “benefica”. Forse, se avanza qualcosa, qualche “sfortunato” avrà la sua parte.
Vere e proprie organizzazioni criminali, poi, arruolano a suon di botte minori, sordomuti e invalidi falsi o veri per l’accattonaggio. Curioso vedere qualcuno di questi veri e propri “artisti di strada” nel loro genere risalire con slancio insospettabile i mezzi pubblici alla fine delle loro penose ma assai realistiche esibizioni in centro.
Poi ci sono i dilettanti allo sbaraglio, a volte – a modo loro – “organizzati”, come i presunti ex – tossicodipendenti che, di solito fuori degli esercizi commerciali, penna alla mano, chiedono una firma inutile su una “petizione” fasulla ed all’incauto firmatario subito chiedono quattrini in nome di una fantomatica “comunità di recupero”.
Altro canale di “drenaggio” per ingenui o creduloni sono le boccettine che quasi ogni bar o esercizio commerciale che si rispetti ostenta sul proprio bancone in nome – di solito- di bimbi da operare con urgenza in America : si può scoprire che non c’è nessuna operazione da fare o non c’è alcun bimbo da aiutare (come per una bimba di nome Alice per la quale furono raccolti negli States l’equivalente di mille e duecento milioni di lire per un’operazione ai polmoni mai fatta).
Uno dei business più fiorenti è quello della raccolta di indumenti usati, da sempre terreno di scorribanda di professionisti del camioncino che si presentano a nome di associazioni benefiche fasulle con tanto di busta già pronta da riempire oppure svuotano i loro contenitori gialli (tra l’altro vere e proprie trappole mortali) collocati in posti strategici, mettiamo vicino ad un centro di raccolta di rifiuti ingombranti o nei cortili delle parrocchie. Se – come vantano costoro - quegli indumenti finissero davvero in parte nel terzo mondo, finirebbero solo di rovinare le industrie tessili locali (il ragazzino indiano o africano preferirà sempre le scarpe Nike usate che il prodotto locale non firmato).
Insomma, un business come altri, ma imbellettato da ragioni umanitarie, il che moltiplica a dismisura gli introiti (scriveva G.B.Shaw: “I ricchi fanno a beneficenza, ma anche la beneficenza fa ricchi”), ma anche l’intollerabilità di questo mercimonio.
Dunque, vigilate, gente. E se proprio volete elargire il vostro obolo, prima informatevi presso gli uffici dell’apposito assessorato comunale o all’Urp dell’USL, per sapere se il beneficiato ha dichiarato o registrato la propria ragione sociale (con tanto di sede e numero di telefono) e le attività per cui chiede soldi.
Lunedì 17 novembre 2008
Agenzie (di illusioni) matrimoniali
Quella delle agenzie matrimoniali non è altro che l’ennesima variante sul tema : “Come spennare i soliti polli senza correre soverchi rischi di denuncia per truffa”.
L’agenzia, infatti, anche se si fregia indebitamente del titolo di “matrimoniale”, si obbliga semplicemente a fornire al cliente “il maggior numero possibile di contatti interpersonali" (la cosiddetta “obbligazione di mezzi”), non certo a trovargli a tutti i costi l’anima gemella o addirittura portarlo all’altare.
Nello stesso tempo però fa di tutto per illuderlo, a parte l’insegna fasulla: intanto, non sempre spiega preliminarmente e con la dovuta chiarezza al cliente che essa non garantisce affatto il risultato sperato, anzi non di rado lo incoraggia a firmare garantendogli che col suo fascino da latin lover non avrà problemi di sorta ad impalmare qualche bella squinzia; poi cerca di protrarre il contratto almeno fino a due anni (sperando che il cliente trovi al più presto l’anima gemella, chè in tal caso avrà realizzato il massimo profitto col minimo sforzo), spiegandogli che in questo modo avrà più possibilità di centrare il bersaglio.
Il cliente maschio che bussa a queste porte, dal canto suo – nonostante quello che si affannano a dirgli i furbastri che vi lavorano (“La gente si iscrive da noi perché sa di avere così maggiori possibilità di trovare qualcuno all’altezza delle sue aspettative" e menate del genere ) e che a volte può fargli piacere credere (per autoconsolazione) – è arrivato proprio alla frutta (per le donne è diverso, tra loro ci può essere davvero quella che cerca il “principe azzurro” delle fiabe, oppure la donna di una certà età e magari straniera che può trovare disdicevole girare per locali e luoghi pubblici in cerca del partito giusto; ma ci sono anche le agenzie che le donne le iscrivono gratis). Quindi, con tutta probabilità ha la mente obnubilata dal bisogno e disposto a firmare qualsiasi cosa gli si proponga.
Ma torniamo alla formula principe del contratto che vi si propina (che tra l’altro i furbastri non vi consentono di portare a casa per rifletterci sopra con calma magari con l’apporto di qualche avvocato): “L’agenzia s’impegna a promuovere relazioni sociali a favore del cliente al fine di procurargli il maggior numero possibile di contatti interpersonali". Come si vede, assoluta genericità e vaghezza degli impegni scritti col cliente (quanto a quelli verbali, non è raro sentirsi proporre mari e monti, al che uno si chiede: ma possibile che questa gente che si dice essere ricca, bella e di cultura sia ancora “single”?): non c’è nessuna indicazione precisa sul numero dei contatti “garantiti”, che ben possono dunque ridursi ad un numero assai esiguo a totale discrezione dell’agenzia, che avanzerà a sua giustificazione i motivi più vari, come ad esempio la difficoltà a reperire nel suo catalogo soggetti del tipo di quelli descritti dal cliente, anche se si tratta di richieste normalissime (giustificazione valida anche per spiegare la proposta di soggetti prive delle caratteristiche richieste: così si potrà ad es. proporre una donna con figli a chi ha chiesto di incontrare solo soggetti senza figli, spiegandogli che “è difficile trovare donne di una certa età senza figli “) e via di questo passo.
In realtà, spesso si inviano al cliente schede di gente, donne in particolare, italiane soprattutto, che non hanno alcuna vera intenzione di fare nuove conoscenze, a meno che non capiti qualche Rockfeller magari piacente, e che si sono iscritte per hobby, specie se non si paga, ma quelli te le rifilano lo stesso, tanto per fare numero.
Se quindi alla fine ti ritrovi un pugno di mosche in mano e provi a protestare, ti rispondono che sei tu che non ci sai fare o che hai pretese eccessive etc,etc.
Aggiungiamoci poi che queste agenzie, anche le più affermate, sono soggette ad un turn-over di personale davvero impressionante, et pour cause, trattandosi di un mestiere un po’ troppo particolare (l’Eliana Monti, ad esempio, una delle più radicate sul territorio, pare assuma soprattutto ragazze giovani, magari neolaureate in psicologia, che costano poco e fanno bella presenza, le quali accettano come primo lavoro, in mancanza d’altro, ma appena possono filano via per lavori un po’ più “dignitosi”).
Per cui uno si ritrova di mese in mese ad avere a che fare con personale diverso, con cui ogni volta deve riprendere il filo del discorso interrotto, fidando a questo punto soltanto nel buon Dio e nella buona volontà di chi gli sta di fronte (ma a torto, visto che costoro si sentono prima di tutto dipendenti impegnati ad accrescere il profitto del loro padrone e assai difficilmente prendono a cuore il problema del cliente, come pure sarebbe necessario in un mestiere del genere).
Poi ci sono le trappole diaboliche, del tipo ragazze dell’est, (in genere bellissime fotomodelle) che si iscrivono presso tutte le agenzie matrimoniali disponibili e vivono gestendo i numerosi incontri con il clienti (scelgono sempre i professionisti denarosi) delle agenzie matrimoniali.
Inutile dire che le agenzie che acconsentono a tenere il loro profilo all’interno del proprio catalogo sono ancora meno serie delle altre.
Quanto alle agenzie che propongono solo ragazze dell’est, spiattellando fotogallery di bellissime donne russe o ucraine o romene etc. da raggiungere a casa loro (così alle spese di iscrizione si aggiungono quelle del viaggio), ecco cosa accade di solito al malcapitato turista della speranza: si ritroverà nel migliore dei casi in una sala di aspetto a competere con un minimo di 20-30 clienti suoi connazionali (tanti sono gli italiani che mensilmente approdano ad ognuna di queste spiagge del desiderio insoddisfatto).
Un consiglio, dunque, a chi voglia a tutti i costi intraprendere questa strada assai perigliosa: passare prima da un’associazione di consumatori e farsi buttar giù un facsimile di contratto coi controfiocchi da opporre all’immancabile contratto-capestro della controparte.
Perché altrimenti non c’è uno straccio di legge che ci tuteli da queste vere e proprie “truffe legalizzate”.
24 novembre 2008
Le avventure di Colaninno
Colaninno padre, il capo della cordata di imprenditori della neonata “Compagnia aerea italiana” (CAI) che ha messo le mani su quel che resta dell’Alitalia grazie unicamente ai nostri soldi - alla fine l’impresa voluta dal Berlusca per fare un favore agli amici degli amici, con la scusa dell’italianità della ex compagnia di bandiera che fa gonfiare il petto soprattutto ai suoi sodali aennini cooptati nel Popolo delle Libertà, ci costerà circa un miliardo di euro, di cui trecento già mollati ed altri settecento tra obbligazioni Alitalia detenute dal governo e non rimborsabili, e cosiddetti ammortizzatori sociali, quali prepensionamenti e cassa integrazione - è un altro esempio preclaro di manager (anzi di “magnager”, neologismo più appropriato per questi signori) che approda ad un ente pubblico dopo aver mostrato tutte le sue “qualità” (si fa per dire) in un altro ente parzialmente pubblico come la Telecom, che portò al dissesto e da cui spillò gratis a fine corsa - a titolo di liquidazione – una società immobiliare, la IMMSI, poi rivenduta a peso d’oro per comprare la Piaggio a prezzi di realizzo e piazzarla ai soliti fessi a due euro e mezzo ad azione (oggi ne vale molto meno).
Evidentemente, ha fatto scuola il caso eclatante e vergognoso dell’affossatore delle Ferrovie dello Stato, Giancarlo Cimoli, premiato nel 2003 proprio con la direzione dell’Alitalia, dove è arrivato a guadagnare un milione e 334.000 euro l’anno come presidente ed amministratore delegato – ottavo tra i manager pubblici più ricchi - mentre portava al collasso definitivo anche quest’ente e scappava via prima del diluvio con l’ennesima prebenda-premio.
Ma torniamo al Nostro eroe di giornata (il salvatore dell’Alitalia !) e alle sue “marachelle” in Telecom. Per cominciare, i capitali utilizzati per la sua acquisizione vennero scaricati sull’ azienda stessa sotto forma di debiti: uno "zaino" pesante che l’azzoppò da subito, per cui il Nostro pensò bene di rivalersi sui poveri utenti (per la serie “il telefono, la tua croce“).
Così, ad esempio, sotto la sua illuminata guida il servizio del 12 divenne a pagamento (ben tre scatti a botta). Vero che faceva schifo anche prima (impossibile – per dirne una - avere un numero di un ufficio che non sia quello del centralino), ma almeno i numeri telefonici li dava gratis. Poi fece un’infornata di personale avventizio che, sottopagato e schiavizzato, scaricava le sue ubbie sui malcapitati che chiamavano i cosiddetti call-center (bisogna dire però che questa è da sempre una prerogativa Telecom: non c’è forse Ente più o meno pubblico in Italia i cui addetti si comportino così scostumatamente con gli utenti: pare quasi che in Telecom si faccia a gara ad assumere i peggiori!).
Nel frattempo si sovvenzionava lautamente vendendo le sue azioni Telecom – appena quotata in Borsa - a prezzo gonfiato. Poi le azioni scendevano al loro reale valore di mercato e a rimetterci era il solito Pantalone, ossia investitori e piccoli risparmiatori (ma questo è un meccanismo largamente usato dai suddetti “magnager”).
La sua carriera in Telecom finisce bruscamente quando i suoi soci Gnutti e Consorte gliela sfilano da sotto il naso e la vendono a Tronchetti Provera. Pare che Colaninno volesse affiancare una grande rete televisiva all’azienda, ma “in Italia chi tocca la Tv muore” (e infatti Trinchetti si affretterà ad affossare La 7 nella culla: un vero peccato, perché quel che resta de La 7 dimostra tutte le sue potenzialità inespresse di valido concorrente del duopolio Rai-Mediaset).
Ma ecco Colaninno ripartire da Alitalia. Certo che se il buongiorno si vede dal mattino, forse è il caso che i potenziali passeggeri rifacciano le valigie e traslochino sotto altre bandiere.
sabato 20 dicembre 2008
Il riformismo delle tangenti
La destra, specie a partire dalle ultime tornate elettorali, politiche o amministrative che siano, suole presentarsi come una forza non condizionata da ideologismi ormai desueti.
Questo approccio era molto evidente, in particolare, nella campagna di Alemanno per il Campidoglio. Alemanno vinse, probabilmente, anche perché si accreditò come il pragmatico che, affrancato dai ceppi ideologici della sua parte politica, cerca di abbassare i toni del dibattito che la sinistra aveva pericolosamente elevato gridando ai “barbari in arrivo” o al torbido connubio tra “leghisti,fascisti e affaristi” (come se gli “affaristi” fossero tutti da una parte: purtroppo le vicende recenti che hanno coinvolto numerose giunte di centrosinistra dimostrano il contrario) , fino al patetico exploit di Ingrao: ”Io vi prego, vi scongiuro...” a petto del quale il “mi raccomando, nun votà Alemanno” letto sui muri di città appariva ben più diretto ed efficace.
La deideologizzazione del dibattito politico è cosa buona e giusta se aiuta tutti a ragionare con la propria testa e non per schemi e partiti presi, a valutare le singole scelte politiche, per quanto provengano da parte avversa, con obiettività e senza pregiudizi di sorta.
Capisco che sarebbe una rivoluzione copernicana per un Paese abituato da secoli a dividersi tra guelfi e ghibellini e che, probabilmente, si diverte ancora in buona parte a schierarsi per l’uno o per l’altro dei contentendi televisivi, ognuno geloso detentore della verità assoluta e mai disponibile non dico ad accettare le tesi contrarie, ma nemmeno a ragionarci un attimo sopra (e difatti l’uno cerca di prevaricare l’altro, magari coprendone la voce per impedire agli utenti di ascoltare quel che dice; non per niente Omar Calabrese ha intitolato un suo saggio: “Come nella boxe. Lo spettacolo della politica in Tv".
Un divertimento fine a sé stesso, però, dal quale molti – immagino - si levino con una sensazione di inconcludenza ed inutilità di queste ipocrite esibizioni di anime belle, tutte piene di zelo e progetti per il bene pubblico, le stesse che – intercettate dai magistrati nel privato – mostrano di non sollevarsi d’un palmo dalla meschinità o peggio dei loro interessi personali e di bottega, per non parlare del linguaggio scurrile esibito, ad ulteriore conferma della loro bassezza morale (e forse il calo degli ascolti Tv è una prova indiretta di questa crescente insofferenza: per dirne una, nell’ottobre 2005 RAI e Mediaset insieme avevano una penetrazione complessiva del 43,32 per cento della popolazione, scesa al 38,86 nel novembre di quest’anno). In ogni caso la deideologizzazione del dibattito politico nazionale sarebbe ben più apprezzabile ed apprezzata se non venisse sbandierata talvolta a sproposito, lasciando il sospetto di voler in realtà coprire corposi interessi o peggio malefatte inconfessabili.
Per fare un esempio che riguarda la politica internazionale ed in particolare la guerra in Irak, si può davvero liquidare come “ideologica” la tesi per cui “qualcuno” all’interno dell’amministrazione USA – e segnatamente il vicepresidente Dick Cheney, incidentalmente capo dell’Halliburton, la più grossa impresa di costruzioni del mondo – può aver fatto la semplice, banale (anche se cinica) considerazione economica per cui per poter lucrare sugli affari della ricostruzione, bisogna prima distruggerlo, il paese che si vuole ricostruire? Risultato impossibile se Saddam fosse stato eliminato in altro modo, magari con una di quelle operazioni chirurgiche che a suo tempo tolsero di mezzo personaggi di ben altro calibro.
Peggio ancora, la auspicata deideologizzazione perde credibilità se chi la promuove non si comporta di conseguenza.
E dove sono le scelte anti ideologiche di questa destra di governo che si muove solo a favore del “suo” popolo delle partite IVA abbassandone la già scarsa contribuzione fiscale con la revisione degli studi di settore e altri sbracamenti consimili, mentre nega agli altri persino la non trascendentale defiscalizzazione delle tredicesime, almeno di quelle meno ricche, pur propugnandone a parole maggiori consumi?
Sull’altro versante, ossia a sinistra , qualcuno sembra aver interpretato la svolta riformista come un allettante invito a scavalcare ogni residuo sentimento di “diversità”, ogni residua remora a copulare con l’affarismo più becero (“Ma smitizziamoli, questi parchi!”, invocava il sindaco di Firenze prima di lanciarsi a capofitto tra le braccia dell’ultima speculazione edilizia ligrestiana: ottanta ettari di verde spazzati via per far posto ad uno stadio di calcio).
Se il riformismo è questo, allora arridatece l’ideologia !
10 gennaio 2009
L’indipendenza dell’informazione... E il crack Parmalat?
Ferruccio De Bortoli, direttore del “Sole-24 Ore”, va in giro per conferenze sulla crisi finanziaria ed i suoi riflessi sull’economia reale e col suo solito aplomb chiosa: “E’ nelle situazioni di crisi che si evidenzia l’importanza di una stampa libera e indipendente …”.
Verrebbe da chiedergli: ma questo principio sacrosanto, ratificato pure nelle otto regole della “Carta dei doveri dei giornalisti economici” del 1993 (ritoccata nel 2005 e nel 2007) che a sua volta si richiamava alla direttiva comunitaria contro il market abuse, s’è mai tradotto in realtà?
Si direbbe piuttosto che in tutti i principali casi di crisi finanziarie del passato recente (nelle quali le banche hanno sempre giocato un ruolo di primo piano) , come Cirio, Parmalat, Italease, i giornalisti, comprese alcune cosiddette “grandi firme", si sono dimostrati nel migliore dei casi poco attenti a quel che accadeva, nel peggiore omertosi ed accondiscendenti, per non parlare dei casi eclatanti di giornalisti che ricattavano le imprese: soldi in cambio della cessazione di campagne di stampa ostili.
Insomma, come scrive Travaglio, anziché i cani di guardia del potere, come in America, questi al massimo hanno fatto i cani di compagnia o da riporto.
Per esempio: i giornalisti del gruppo editoriale che fa capo all’Unione Industriali di Parma, mentre la bolla speculativa Parmalat cresce nel corso degli anni ’80 e ’90 fino a raggiungere la cifra record di 15 miliardi di euro, 30.000 miliardi di lire, l’equivalente di due punti di PIL, non fanno una piega.
Nemmeno quando si comincia a vociferare apertamente di doppie fatturazioni, di operazioni spregiudicate, di fatica a rientrare dai prestiti bancari e intanto si susseguono i fallimenti industriali (ultimo quello dei prodotti della linea Mister Day).
Nemmeno quando, sei anni prima del crack del 2003, un piccolo ragioniere parmigiano, tale Mario Valla, in una consulenza per la Procura (che poi opportunamente insabbierà il tutto) denuncia : “La Parmalat è da considerarsi fallita senza l’aiuto delle banche".
E il loro giornale (la Gazzetta di Parma) continuerà a tacere persino quando, a metà dicembre 2003, ormai tutte le prime pagine dei quotidiani nazionali sono dedicate alla Parmalat (forse sperando che nessuno le leggesse).
Dopodiché, caduto Tanzi, sarà tutto un “dagli all’untore!”, un addossargli tutte le colpe per non far emergere il marcio tutt’attorno.
Ma, ripeto, quello dell’indipendenza della stampa dal potere economico è un problema nazionale.
Ogni tanto, per fortuna, qualche giornalista se ne ricorda.
Per esempio. Il 31 dicembre scorso sul Corsera i giornalisti del Cdr del giornale milanese così scrivono agli azionisti della RCS (banchieri, imprenditori, finanzieri e capitani d’azienda): “In una fase confusa e delicata, questa Redazione continua ad avere chiaro che il Corriere della Sera non è uno strumento nelle vostre mani e vi ricorda ancora una volta che la missione di un giornale è di assicurare un’informazione libera, pluralista e, sempre e ovunque, indipendente”.
Chissà se questi buoni propositi serviranno in futuro a strappare qualche incauto risparmiatore dalle grinfie di bancarottieri e banchieri da strapazzo .
13 febbraio 2009
Se i giornalisti gridano al linciaggio
Ecco un piccolo campionario di quel che ci tocca leggere, un giorno sì e l’altro pure, in omaggio alla libertà di stampa, sul tragitto che sembra condurci inesorabilmente alla deriva morale.
Su un settimanale della free press parmigiana (che non ha solo i “venticinque lettori" del Manzoni, la sfogliano ben trenta lettori di giornali su cento) gli editoriali - che, come si sa, di solito sono affidati alla penna di personalità di spicco -, sono appannaggio di un tizio che, a quel che si sa, ha il solo background di “esperto in esplosivi” (tutto un programma) e diffonde il suo verbo con piglio messianico.
Ultimamente si è esibito in questo exploit: dopo aver sproloquiato sui casi – assai inquietanti, per la verità - di Luca Delfino e Angelo Izzo, si rivolge a quelli che chiama confidenzialmente gli “Amici della Polizia Penitenziaria” e li invita “a guardare da un’altra parte mentre qualche energumeno trasforma il Delfino e l’Izzo nella sua troietta".
Termina quindi con un “grazie di cuore a nome mio e di tutti gli italiani che ignorano la falsa demagogia buonista", dando per scontato evidentemente che gli “Amici” si adoperino immediatamente per accontentarlo, magari provvedendo in proprio.
E giù - immagino - gli applausi scroscianti di tutti i benpensanti come lui. Gli stessi che inneggiano sui quotidiani on-line, negli spazi dedicati ai commenti dei lettori, ai pestaggi in carcere di Aldo Cagna, l’assassino di Nadia Mantovani (per la morte annunciata della quale le forze dell’ordine hanno molto da rimproverarsi), e dei due romeni arrestati per lo stupro di Guidonia (e che alla radicale Rita Bernardini, che ha denunciato il fatto, hanno scritto via e-mail: “Fai schifo, ti auguro di essere stuprata da un branco di merde come quelle lì…” oppure «Spero veramente che un giorno le stuprino le sue figlie o qualche suo famigliare»).
Ma che differenza sostanziale c’è, sul piano morale, tra uno che stupra ed uno che incita al linciaggio? Nessuna. Quello che oggi incita al linciaggio sarà probabilmente lo stupratore o l’assassino di domani.
Questo è il livello di civiltà da terzo mondo a cui questi soggetti, intasando i buchi neri dei nuovi mass-media informativi, vorrebbero trascinarci (il trattamento dei detenuti è un infallibile metro di misura). Il loro ideale sono probabilmente le carceri brasiliane o turche, col loro corollario infinito di pestaggi, torture fisiche e psicologiche, scioperi della fame di protesta e punizioni.
C’è poi da chiedersi: ma questi linciatori di professione dove cavolo sono quando c’è bisogno di aiuto, di solidarietà tra cittadini, di un tessuto sociale civile che cerchi di prevenire crimini e abusi, invece di scagliarsi contro i criminali solo quando ormai sono stati già messi in condizione di non nuocere?
Per dirla tutta, anche i cosiddetti “maestri” del giornalismo talvolta lasciano a desiderare.
Sabato 24 gennaio ci è toccato leggere un confuso editoriale sul Corsera, di cui è stato pure direttore, dell’ineffabile Piero Ostellino (vecchia cariatide sempre più ideologicamente sodale al berlusconismo), in cui inneggia – udite! udite! - all’individualismo, suggerendolo ad Obama come ricetta per trarre l’America dalle secche della crisi sottraendola alle insidie di un eccessivo interventismo statale (in questo allineandosi perfettamente al suo mentore Berlusconi), a parere del quale le poderose misure anticrisi degli altri paesi europei sono state per l’appunto “eccessivamente interventiste”, per cui in Italia c’è da attendersi al massimo da questo governo qualche minestrina riscaldata come gli incentivi all’acquisto delle lavastoviglie o di auto ecologiche, senza però toccare gli ecologissimi SUV, la cui diffusione esponenziale ha decretato il definitivo trionfo della legge della giungla sulle nostre strade ai danni soprattutto di pedoni e motorini.
Ora, a leggere il dizionario della lingua italiana, l’individualismo è “la tendenza a svalutare gli interessi e le esigenze della collettività, in nome della propria personalità o indipendenza o egoismo”.
Dunque, non sembra proprio proponibile a chicchessia, men che meno da chi – in quanto italiano - dovrebbe ben conoscere gli effetti deleteri sul nostro vivere civile (o meglio incivile) di quello che è - com’è noto - uno dei peggiori vizi nazionali assieme alla propensione alla corruzione/concussione, a fregare il prossimo, alla disorganizzazione etc.
Effetti che vanno dagli immani quotidiani ingorghi metropolitani, frutto insieme dell’individualismo che non rinuncia all’auto nel paese più motorizzato del mondo e dell’insipienza degli amministratori dediti solo al loro “particulare”; agli egoismi assurdi (ognuno geloso di quel che sa) che tanto nuocciono all’efficienza del lavoro di gruppo sia nel privato che nel pubblico , o ancora alla proliferazione incontrollata di ridicoli partitucoli – in quella che era stata annunciata dai soliti coriferi del “nuovo che avanza” come l’era del bipartitismo più o meno perfetto (da quello di Ferrara a quello del convertito Magdi Allam e di tanti altri che rappresentano solo il loro ego smisurato), e via elencando.
Se questi sono gli esempi proposti dai cosiddetti maitre-a-penser, c’è poco da meravigliarsi che proliferino i tentativi più deleteri di imitazione .
2 maggio 2009
Terremoti, alluvioni ed eruzioni: Italia "fabbrica di disastri"
Il problema della vulnerabilità idrogeologica, sismica e vulcanica del nostro territorio è da sempre il più trascurato in Italia: non ci si è mai preoccupati di consultare i geologi - pochissimi , tra l’altro, tanto che molti laureati in geologia fanno tutt’altro mestiere - per avere un esame dettagliato, ad esempio, del suolo su cui costruire , salvo stracciarsi le vesti e versare lacrime di coccodrillo all’indomani delle catastrofi annunziate che colpiscono regolarmente il paese, per poi dimenticarsene fino alla prossima.
Siamo – come scrive Giorgio Bocca – un paese che “fabbrica disastri”: 1951 alluvione del Polesine, tanto disastrosa da finire nei libri di scuola elementare; 1961 disastro del Vajont ; 1987 alluvione della Valtellina con 53 morti, migliaia di sfollati ed un danno di circa 4000 miliardi di lire; 1988 decine di frane e 2.000.000 di metri cubi di fango travolgono i comuni di Sarno, Quindici, Siano e Bracigliano con 160 morti, di cui 137 nella sola Sarno.
Il tutto con una spesa per la riparazione dei danni che nel solo decennio 1994-2004 è ammontata a 20.946 milioni di euro, senza risolvere strutturalmente niente , poiché ancora adesso il 50% degli italiani è a rischio. Una spesa assai maggiore di quanto costerebbe affrontare per tempo i problemi.
Persino i tanto vituperati Borboni di Napoli avevano fatto di meglio, approntando quantomeno un funzionale sistema di tutela del territorio campano, e – guardacaso - del Sarnese in particolare, dalle alluvioni: i c.d. Regi Lagni, dei particolari tipi di pozzi che drenavano molto efficacemente l’acqua in eccesso, da un bel pezzo abbandonati a se stessi e ormai non più funzionanti.
Negli anni 50, vi era un rito nelle scuole italiane: il giorno di S.Martino, l’11 Novembre, ogni scolaro piantava un alberello, un modo simbolico di opporsi al disboscamento selvaggio, che è però continuato ai giorni nostri, insieme a incendi dolosi o su commissione per recuperare terreni alla speculazione edilizia.
Aggiungasi lo scarsissimo controllo da parte delle autorità costituite sul modo di edificazione. A suo tempo fece scalpore quanto accaduto a Napoli a seguito del disastroso terremoto del Novembre 1980 (6° grado Scala Richter o 9° grado Scala Mercalli): un palazzo di 10 piani terminato appena l’anno prima crollò come un castello di carte senza fare vittime e si scoprì che era stato costruito con cemento disarmato, senza l’armatura metallica, o almeno le staffe di contenimento. Visto quanto successo a L’Aquila, non pare che da allora si siano intensificati i controlli. Quando il danno è fatto, poi, solitamente si manifesta una cronica confusione e dei ritardi inconcepibili nei soccorsi, specialmente se il disastro succede nei sacri giorni di festa.
Qualcosa si è fatto istituendo la Protezione Civile, che negli ultimissimi tempi è abbastanza migliorata sul piano dell’operatività ma molto resta ancora da fare.
Basta un temporale un po’ fuori della norma, per avere il massimo stato d’allerta per piene varie e possibili esondazioni, come nel caso ultimo del Tevere.
Siamo insomma il paese dell’emergenza continua, come ben evidenziato dall’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale ) che fornisce dati impressionanti:
1) i comuni interessati da frane sono ben 5596 ( 69% del totale) con rischio molto elevato per 2839 ; a tutto il 2006 i fenomeni franosi censiti sono 470 mila riguardanti un’area di 20 mila km quadrati. Ben 2/3 delle zone esposte a rischio interessano centri urbani, infrastrutture e aree produttive connesse allo sviluppo economico-sociale del paese, e le cause per lo più sono di origine antropica (umana).
Ad esempio nella zona di Sarno colpita nel 1998, già nel periodo 1841- 1939 si erano verificate 5 frane, ma il fenomeno aveva avuto una progressione impressionante nel secondo dopoguerra, con ben 36 eventi franosi, senza che alcuna autorità politica o tecnica prendesse provvedimenti.
2) Le aree a maggior rischio sismico, sempre secondo l’ISPRA, sono :
1-Settore friulano;
2-Dorsale appenninica centromeridionale;
3-Margine calabro tirrenico;
4-Sicilia sudorientale.
Il 69% dei comuni sono a rischio sismico (si salva solo la Sardegna, di epoca geologica terziaria rispetto al resto d’Italia di epoca quaternaria).
L’elenco dei terremoti esemplifica quanto sopra:
1908 - Terremoto di Messina con circa 100.000 morti;
1915- Terremoto in Abruzzo con 15.000 morti di cui circa 10.700 nell’epicentro
di Avezzano dove si salvarono solo in 300;
1930- Terremoto in Irpinia con 1425 morti;
1968- Terremoto nella valle del Belice in Sicilia con circa 250 morti;
1976- Terremoto in Friuli con circa 1000 morti;
1980- Terremoto in Irpinia con circa 3000 morti ;
1997- Terremoto in Umbria con morti, danneggiata tra l’altro la basilica di S. Francesco d’Assisi coi preziosi dipinti di Giotto e del suo maestro Cimabue;
2002-Terremoto nel Molise , tra l’altro una scuola crollata con 27 bambini come vittime;
2009-Terremoto in Abruzzo con circa 300 morti.
3) Esiste anche un’accentuata pericolosità vulcanica (dati ISPRA) in zone come:
1-Area vesuviana ;
2-Isola d’Ischia
3-Settore etneo;
4-Isole Eolie;
5-Colli Albani.
Il pericolo non risiede solo nell’attività vulcanica , ma in alcuni casi anche nell’eventuale attivazione di fenomeni gravitazionali con relative onde di maremoto. Eppure dopo il terremoto del 1980 si decise di realizzare 20.000 alloggi nella zona rossa sotto il Vesuvio e solo nel 2003 fu emanato un divieto edilizio che riguardava 250 km a rischio, cercando di indurre chi abitava sulle pendici del Vesuvio a trasferirsi, incentivandoli con la corresponsione di 30.000 Euro.
La gente pensò bene di incassare la somma ma di lasciare la casa ad altri, vanificando l’iniziativa: in tutto ci furono la miseria di 378 trasferiti. Attualmente un piano di evacuazione predisposto dallo Stato, in caso di attivazione vulcanica del Vesuvio, richiederebbe ben 12 giorni.
Una piccola digressione per capire come avvengono i terremoti.
Ecco le parti del sottosuolo fino al centro della terra:
CROSTA TERRESTRE (SILICATI E ROCCE CALCAREE) DI 70 CHILOMETRI |
MANTELLO SUPERIORE DI 400 CHILOMETRI |
MANTELLO DI 3000 CHILOMETRI |
NUCLEO ESTERNO DI 5000 CHILOMETRI |
NUCLEO INTERNO(NICHEL E FERRO) DI 6371 CHILOMETRI |
Un evento sismico si verifica all’interno della crosta terrestre ed è quasi sempre catastrofico se avviene nei primi 10 chilometri del sottosuolo,vista la quasi impossibilità di prevederlo sia in senso temporale che come ubicazione.
In Giappone, però , dopo il disastroso terremoto di Kobe nel 1995, sono stati inseriti a grande profondità nel sottosuolo circa 6000 sismometri per verificare tremolii dovuti alla collisione o più esattamente alla subduzione tra le placche tettoniche che originano i terremoti, un metodo che ha dato i suoi frutti con un notevole risparmio di vite umane nei successivi cataclismi.
Anche in California, nel cui sottosuolo c’è la famosa faglia di S. Andrea che per 1.300 Km va dal confine messicano verso il nord californiano, col progetto SAFOD ci si è attivati con trivellazioni di quasi 4 km per depositare i sismometri, i misuratori di tensione, e prelevare dei campioni di roccia e di fluidi da analizzare in superficie, valutando i cambiamenti di temperatura, la deformazione delle rocce e la pressione dei fluidi in tempo reale prima di un eventuale sisma.
Tutto ciò mentre 800 stazioni attraverso appositi satelliti misurano spostamenti del suolo anche di appena qualche centimetro.
Tutto ciò mentre 800 stazioni attraverso appositi satelliti misurano spostamenti del suolo anche di appena qualche centimetro.
In Italia la prima classificazione del rischio risale all’ordinanza della Protezione civile n.3274 del 2003 (le zone 3 e 4 sono quelle a basso rischio sismico), mentre la prima legge antisismica è del 1974 ma fino al 1980 era stato censito solo il 10 % dei comuni contro il 70% attuale.
Da noi il 50% delle abitazioni sono a rischio sismico, più esattamente:
1) 7,5 milioni di edifici privati su 11 milioni, di cui il 73 per cento senza alcuna protezione;
2) il 75% dei 75 mila edifici pubblici.
1) 7,5 milioni di edifici privati su 11 milioni, di cui il 73 per cento senza alcuna protezione;
2) il 75% dei 75 mila edifici pubblici.
Naturalmente l’opera di prevenzione per essere efficace deve essere accompagnata dall’edificazione a norma di abitazioni pubbliche o private, senza agevolazioni o proroghe continue , dando incentivi sostanziosi non solo per la costruzione di abitazioni “ecologiche”, come finora, ma anche antisismiche.
Inutile dire che anche da questo punto di vista l’Italia, come del resto in molti altri settori della vita sociale, è nettamente deficitaria.
Le “Norme tecniche di costruzione” esistono dal 2005, ma di rinvio in rinvio - grazie alla potente corporazione dei costruttori - si è posticipato il tutto al primo luglio 2010 (per le abitazioni private).
Possibili soluzioni per le case antiche è l’incatenamento tra i muri o i contrafforti anche metro per metro, così come isolatori sismici e dissipatori di energia.
Il costo di tutto ciò è molto elevato, tale da reggere il confronto col valore di una nuova costruzione, ma sempre minore di quello di una ricostruzione a crollo avvenuto.
Altrove, al solito, sono stati più lungimiranti ed efficienti.
In California, dove si paventa il famoso Big One, con la distruzione di mezzo Stato, sono state stabilite norme severe , in base alle quali il venditore è obbligato ad informare l’acquirente dei punti deboli dell’immobile venduto e deve anche consegnargli la guida alla sicurezza compilata dalla Commissione Sicurezza sismica della California per tutti gli immobili costruiti prima del 1960.
Anche in Francia e Giappone, la sicurezza la paga il proprietario e si costruiscono molte abitazioni in legno, materiale più adatto a resistere agli eventi tellurici.
Dopo il disastro che ha distrutto Osaka 15 anni fa, alcuni fabbricati in Giappone sono costruiti con un materiale capace di resistere ad un sisma dell’8° grado della scala Richter, come il palazzo del municipio di Tokyo o di ondeggiare in entrambe le direzioni, come il grattacielo dell’Opera City alto 200 metri.
Nelle fondamenta si installano cuscinetti di gomma armata con piastre d’acciaio, mentre i tubi dell’acqua e dell’elettricità sono dotati di collegamenti a terra flessibili. Sul sito Internet del governo di Tokyo vi sono informazioni per accedere a piccoli sussidi per verifiche di resistenza o interventi di rafforzamento delle abitazioni, visto che da un rapporto del 1997 più di 1,6 milioni di case sono state costruite prima del 1981, anno in cui sono entrate in vigore le nuove norme antisismiche.
Anche in Giappone gli interventi su abitazioni già costruite sarebbero pari alla costruzione di nuove case con un nuovo aggravio del solo 5%.
Un altro mezzo per tutelarsi da calamità naturali, terremoti compresi, è l‘assicurazione (in genere si sottoscrive una polizza antincendio che è estesa anche a tutte le altre casistiche suindicate): esiste in moltissimi paesi quali Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Portogallo, Belgio, Germania, Spagna, Austria, Olanda, Svizzera, e Romania , ma non in Italia.
Un Istituto internazionale, lo Swiss Re, che riassicura le compagnie assicuratrici riporta questi dati: nel 2008 le assicurazioni hanno rimborsato 8 miliardi di dollari per l’uragano Gustav, 1,5 miliardi per la tempesta Emma nel Nord Europa, 1,3 miliardi per tempeste di neve in Cina.
In Italia occorrerebbe una legge apposita per garantire l’obbligatorietà dell’assicurazione, viste le resistenze degli enti assicurativi, di certe associazioni di consumatori e di tanti politicanti da strapazzo
11 marzo 2009 -
Car-sharing : luci ed ombre di un servizio per l’ecologia
Com’è noto, per rispettare Kyoto (meno 6,5 % di emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 1990 nel periodo 2008 – 2012) , oltre all’efficienza energetica e alle fonti rinnovabili, bisogna puntare sulla mobilità sostenibile.
Il car sharing (ovvero l’auto condivisa in italiano, lingua purtroppo in disuso ormai da tempo nel suo paese d’origine, visto il proliferare abnorme di termini stranieri) nasce in quest’ottica .
Ecco la tabella delle città dove il servizio è disponibile (dati riferiti a dicembre 2008):
Città | Inizio | Auto | Utenti | Parcheggi | |||
Bologna | Ago. 2002 | 43 | 1.049 | 25 | |||
Firenze | Apr. 2005 | 28 | 1.096 | 22 | |||
Genova | Lug. 2004 | 75 | 1.851 | 49 | |||
Milano | Sett. 2001 | 70 | 1.873 | 44 | |||
Modena | Apr. 2003 | 18 | 280 | 14 | |||
Parma | Feb. 2007 | 21 | 327 | 12 | |||
Rimini | Estate 2002* Mar.2003 | 5 | 60 | 5 | |||
Roma | Mar. 2005 | 41 | 1.041 | 25 | |||
Torino | Nov. 2002 | 100 | 2.000 | 70 | |||
Venezia | Ago. 2002 | 50 | 2.851 | 11 | |||
Totale | | 451 | 12.428 | 27 | |||
| | | | | |||
Nelle intenzioni dei promotori, ossia il Ministero dell’Ambiente, si tratta di un “servizio di mobilità pubblica urbana integrativo al trasporto pubblico “ con due obiettivi generali:
a) diminuire – si presume in modo non irrilevante - il numero di veicoli circolanti nelle aree urbane e, quindi, decongestionare il traffico cittadino, nonché ridurre la superficie di spazio pubblico per la sosta, da utilizzare per altri scopi;
b) soddisfare anche scopi di tutela ambientale, grazie alla riduzione dell’inquinamento atmosferico cittadino e dei consumi energetici (i veicoli adibiti al servizio devono rispettare i limiti fissati dall’Unione Europea di consumo di carburante ed emissioni inquinanti, nonché di sicurezza). Sono obiettivi importanti – se realizzati - per una migliore vivibilità della città, tali da giustificare anche una gestione in deficit. Tre sono – o dovrebbero essere - le carte vincenti del car-sharing per attrarre il possessore d’auto e convincere chi l’auto non ce l’ha ancora a non farsi venire l’uzzolo di comprarsela:
1) un notevole risparmio rispetto ai costi fissi di esercizio di un’autovettura di proprietà (“l’importo delle tariffe deve essere tale da rendere nettamente vantaggioso per l’utente l’uso delle autovetture del Car Sharing rispetto a quelle di proprietà “);
2) una maggiore flessibilità e comodità rispetto al mezzo pubblico (l’utente ha la possibilità di utilizzare un’autovettura per periodi di tempo anche limitati e ovviamente per effettuare il percorso e le soste che più gli aggradano);
3) privilegi come quelli di parcheggi esclusivi localizzati sulla viabilità pubblica, nonché di accesso a corsie riservate ai mezzi di trasporto pubblico e alle Zone a Traffico Limitato.
Vediamo se queste condizioni, e specialmente la prima che è quella decisiva, sono rispettate in concreto. Prendiamo ad esempio il caso di Roma, dove il car sharing è stato avviato nel 2005 nell’area centrale.
A) I costi . Si paga una tariffa fissa di abbonamento di 100 euro (150 euro se l’utilizza tutta la famiglia, e se ne può fare uno “di prova” di 3 mesi per 40 euro), più le tariffe variabili di utilizzo (orarie + chilometriche in funzione del veicolo utilizzato), che vanno da 1,80 euro ad ora per una Panda a 2,40 euro per una Multipla, e da un minimo di trenta centesimi a km per una Panda ad un massimo di 40 centesimi a km per un Ducato. Sono costi in ogni caso decisamente superiori al costo di utilizzo di un’auto di proprietà (che ovviamente ha costi fissi molto alti, a partire dal costo di acquisto). Quanto all’autonoleggio “normale”, per un weekend con un chilometraggio massimo di 400 km spendi tra gli 88 euro di Maggiore e i 107 di Europcar, più il costo del rifornimento più 15 euro. Mettiamo che ti fai tutti i 400 km consumando 20 litri (calcolando venti chilometri a litro): spendi alla fine all’incirca 88 + 23 + 15= 126 euro. Se utilizzi il car sharing per 400 km, senza considerare i 120 euro di abbonamento, spendi come minimo 400 per trenta centesimi (cioè 120 euro), più quarantotto ore per 1,80 euro (86,40 euro) = 206, 40 euro, cioè ottanta euro in più.
B) La fruibilità del servizio. Difficile, a volte, trovare libera la linea telefonica di prenotazione, o trovare l’auto desiderata nel periodo desiderato e nel luogo desiderato o trovare materialmente l’auto prenotata (l’auto c’è ma non nel suo parcheggio e se si prenota l’uso da internet, non viene segnalato il "fuori stallo") o – la cosa forse più seccante - parcheggiare l’auto al rientro negli appositi stalli di sosta regolarmente occupati dai soliti furbi etc. (così ti tocca chiamare il call center, sperando che risponda subito, sennò c’è il rischio di ritrovarsi addebitati a fine mese altri 25 euro di multa per ritardo nella consegna, e segnalare il parcheggio occupato, poi cercartene un altro…).
Con l’autonoleggio normale puoi anche lasciare l’auto in un’altra città (paghi però come minimo trentanove euro in più) . Però non hai la comodità di prendere l’auto a tutte le ore utilizzando la smart card (che purtroppo si smagnetizza abbastanza facilmente).
Se poi uno becca una contravvenzione col car-sharing, l’iter burocratico di notifica è tale che alla fine, per una multa, mettiamo, di 36 euro per sosta vietata, ci si ritrova a pagare, con le spese di notifica prima alla società proprietaria delle autovetture, poi al gestore del car-sharing che la smista al malcapitato, ben venticinque euro in più .
Aggiungasi che i tanto decantati vantaggi del servizio (tipo la possibilità di entrare nelle ZTL) svaniscono appena si superano i confini cittadini.
B) La fruibilità del servizio. Difficile, a volte, trovare libera la linea telefonica di prenotazione, o trovare l’auto desiderata nel periodo desiderato e nel luogo desiderato o trovare materialmente l’auto prenotata (l’auto c’è ma non nel suo parcheggio e se si prenota l’uso da internet, non viene segnalato il "fuori stallo") o – la cosa forse più seccante - parcheggiare l’auto al rientro negli appositi stalli di sosta regolarmente occupati dai soliti furbi etc. (così ti tocca chiamare il call center, sperando che risponda subito, sennò c’è il rischio di ritrovarsi addebitati a fine mese altri 25 euro di multa per ritardo nella consegna, e segnalare il parcheggio occupato, poi cercartene un altro…).
Con l’autonoleggio normale puoi anche lasciare l’auto in un’altra città (paghi però come minimo trentanove euro in più) . Però non hai la comodità di prendere l’auto a tutte le ore utilizzando la smart card (che purtroppo si smagnetizza abbastanza facilmente).
Se poi uno becca una contravvenzione col car-sharing, l’iter burocratico di notifica è tale che alla fine, per una multa, mettiamo, di 36 euro per sosta vietata, ci si ritrova a pagare, con le spese di notifica prima alla società proprietaria delle autovetture, poi al gestore del car-sharing che la smista al malcapitato, ben venticinque euro in più .
Aggiungasi che i tanto decantati vantaggi del servizio (tipo la possibilità di entrare nelle ZTL) svaniscono appena si superano i confini cittadini.
Insomma, tra costi non economicissimi , falle nella gestione e vessazioni all’utente, uno dopo un po’ di car sharing rischia di averne già abbastanza. Ma il vero buco nero sono i costi. Se, anziché fornire un servizio di pubblica utilità e con tutti crismi, si punta soprattutto a far quadrare i conti, la cosa si ritorcerà contro i suoi autori. Perché, che senso ha un car sharing azzoppato da una scarsa diffusione.
25 marzo 2009