venerdì 7 ottobre 2011

COMEFAREPER: SCRIVERE UN'OPERA LETTERARIA (PARTE SECONDA)



CORSO DI SCRITTURA CREATIVA


a cura di franK WISE



dagli appunti delle lezioni di Giuseppe Pontiggia (1920-1990)

PARTE SECONDA




La costruzione del testo


Nella costruzione del testo, soprattutto nella fase di avvio, occorre quella precisione che è adeguatezza agli effetti che ci si propone, in cui cioè le parole sono essenziali, adeguate, concorrenti a un effetto unitario.

Questo risultato è ottenuto da Hemingway con uno stile conciso che è stato definito “telegrafico” (ed è invece spesso assai ricco); da Proust con l’uso sì di periodi molto complessi, in cui però ogni frase s’incastra con precisione nell’altra.

Il Leopardi usa parole apparentemente ambigue nelle sue poesie, ma in cui l’ambiguità di parole come “lontano”, “indefinito”, “remoto” rientra anch’essa nel dominio della precisione: parole precise usate per evocare delle sensazioni molto vaghe.





GLI ATTACCHI.



Quando l’inizio è felice, esso diventa la miniera stessa a cui attingere per sviluppare il resto, è una promessa che contiene già in nuce lo sviluppo successivo, serve quindi a non finire fuori strada, ad instradarsi per la retta via.

Dostoevskij diceva: “Devo conquistare il lettore fin dalle prime pagine o sono finito”.





Attacco del “PRINCIPE” di Machiavelli



“Tutti li stati, tutti i dominii che hanno avuto et hanno imperio sopra li uomini, sono stati e sono o repubbliche o principati. I principati sono o ereditarii, dei quali el sangue del loro signore ne sia stato lungo tempo principe, o e’ sono nuovi. E nuovi, o sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che li acquista, com’è il regno di Napoli al re di Spagna. Sono, questi dominii così acquistati, o consueti a vivere sotto uno principe, o usi a essere liberi, et acquistonsi o con le armi d’altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù “.



E’ un attacco d’esordio d’una perentorietà che non lascia modo di sottrarsi al lettore. Si attacca con un “tutti”, poi ripetuto, a creare a espressioni non semplicemente “autoritarie”, ma anche dotate di autorevolezza, dove il “tutti” non è affatto un luogo comun, un modo di dire non dotato di forza propria (un esempio al volo di aforisma dotato d’intrinseca autorevolezza: “Nessuno è insostituibile se non nel rapporto d’amore”).

Insomma, ecco dei “tutti” non sviliti, quindi particolarmente calzanti (e incalzanti) a rinvigorire l’espressione, che si giova poi allo stesso scopo della rigorosa costruzione simmetrica delle frasi così come, nella poesia, la rima – che non è solo un fatto puramente musicale – crea quella simmetria che esprime una sorta di magico dominio sul mondo.

“I principati sono ereditari o sono nuovi” : il pensiero arrivato ad un così alto grado di apprendimento del reale ( come dice lo stesso Machiavelli nella dedica del “Principe” a Lorenzo de’ Medici : “la mia cognizione delle azioni degli uomini grandi,imparata con una lunga esperienza delle cose moderne ed una continua lezione delle antique…”) , a questo livello di “cognizione” del reale, il pensiero non può che tradursi in queste forme nette ( anche se non va scordato che persino la reticenza, in certi casi, può tradursi in autorevolezza; la frase del Manzoni “ Così andavano le cose nel secolo XVII “, sembra una cautela, ma è in definitiva ferocemente aggressiva, intensifica gli effetti anziché sminuirli).

Tornando al Machiavelli, tutta la simmetrica costruzione delle frasi, scandita sui vari o…o. fino alla fine del capitolo d’esordio, rappresenta una struttura fortemente retorica, nel senso che, secondo le regole della Retorica (regole solitamente rigide e tramontate appunto perché sentite come troppo costrittive) il linguaggio si articola appunto in modo preciso.

Un’opera come questa (che non per niente doveva “ fare cosa utile a chi l’intende”, quindi in rapporto stretto con l’eventuale lettore, in una prospettiva addirittura “eroica” : il Machiavelli è cosciente che altri hanno studiato la struttura dello Stato, ma si rende conto di affrontare per la prima volta il problema nella sua interezza e novità) cerca dunque già all’avvio di catturare il lettore a cui si rivolge, catturarlo con una pesante rete. Oltretutto, come accade puntualmente in tutte le grandi opere, l’inizio del “Principe” condensa in poche dense righe il nucleo di tutta l’opera.

Mettere insieme tempo, luogo e personaggio è la scelta migliore per un attacco.

Ed ecco, infatti, l’attacco del suo “Delitto e castigo”:



“In uno dei primi giorni di luglio, verso sera, con un caldo veramente terribile, un giovane, uscito dalla stanzetta che aveva preso in subaffitto in una casa del vicolo S…., scese in istrada e lentamente, come se fosse indeciso, si incamminò verso il ponte K…“.



Ecco qui riunite tutte le coordinate di tempo, luogo e personaggio che obbediscono ai canoni ottocenteschi di avvio di un romanzo. Il lettore è certamente catturato da quest’avvio (com’è nelle intenzioni di D.), si mette subito anche lui sulle tracce di quel giovane che si muove per strada etc. Ecco quindi che un inizio, quando è riuscito, non è mai casuale nella sua riuscita.



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Vediamo ora un esempio di attacco non altrettanto felice, quello dei “Promessi Sposi” del Manzoni:



“Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a restringere, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra e un’ampia costiera dall’altra parte ; e il ponte , che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione , e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda ricomincia , per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontana dosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni…”.



Pare acclarato che questa costruzione di stile retorico sia stata dal Manzoni desunta pari pari dall’opera di un maestro di stile del Seicento, il Bartoli ( a conferma che l’impianto retorico è importante, al punto da impressionare e coinvolgere lo stesso Manzoni).



Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell'anno 1628, don Abbondio…”: questo è il vero attacco dei Promessi Sposi.



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Vediamo ora l’attacco della Autobiografia” del Ruskin.



“Io, come mio padre, prima di me, sono un toro impetuoso della vecchia scuola, cioè quella di Omero e di Walter Scott …”.



Ecco come il Ruskin, fin dai primissimi righi, concedendosi grande libertà di movimento (secondo la tradizione anglosassone che premia l’inventiva) ci faccia entrare con poche parole in un mondo complesso e ricco, in cui possiamo penetrare provenendo da molti punti di vista, con un rimescolamento delle carte che da senz’altro un’impronta originale al tutto.

Il criterio è quello di vedere sì l’oggetto del discorso, ma anche tutto quello che è intorno all’oggetto. Questo è utile soprattutto a produrre quel risultato di cui parla Renard: “Mettere un po’ di lume in quello che si scrive”, evitando cioè di spargere grigiore a piene mani. Quello dell’usare a tutti i costi un’uniformità di linguaggio, generatrice di mediocrità, è un pedaggio che bisogna rifiutarsi di pagare (molti ritengono di doverlo pagare per entrare a far parte di qualche istituzione , l’Università ad esempio).

Occorre sempre aggirare quelle che sono le modeste attese degli altri. Ecco un esempio di come, partendo da un oggetto, ci si possa entrare ed uscire a volontà : nel saggio “Poeta e polis” ( un tema fra l’altro che è saturo di luoghi comuni sui rapporti appunto tra il poeta e l’istituzione) Auden così entra in argomento : “E’ sorprendente quanti giovani di ambo i sessi non diano mai risposte …. Nella stragrande maggioranza dichiarano : voglio fare lo scrittore creativo…”.

Lo scrittore è sempre tentato di deviare dal tema principale, di eluderlo, perché il tema vero , di fondo, resta la vita con la sua varietà, la sua irriducibilità a schemi prefissati.

Un altro esempio di rottura degli schemi : Siniasky che parla di Gogol, cioè affronta un monumento nazionale come Gogol ( “Tutti abbiamo indossato il cappotto di Gogol” ) in questo modo : “Vado attorno e chiedo : per caso non sapreste dirmi come fu sepolto Gogol ? Nessuno sa dirmelo …”.

Si deve insomma sempre partire dal presupposto che non si sappia ancora abbastanza dell’argomento, anzi partire come se fosse tabula rasa e si dovesse cominciare da zero a parlarne. Questo ci servirà tra l’altro anche a essere più liberi.

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L’attacco della “Madame Bovary” di Flaubert :



“Quando entrò il Direttore, seguito da un nuovo in abito borghese e da un bidello, che portava un gran banco, eravamo nell'aula di studio. Quelli che dormivano si destarono, e ciascuno si alzò come sorpreso nel lavoro.

Il preside ci fece cenno di star comodi, poi si rivolse all'insegnante:

"Professor Roger," disse sottovoce "le raccomando questo allievo. Viene ammesso alla quinta, ma se il profitto e la condotta lo renderanno meritevole, passerà fra i grandi, come richiederebbe la sua età".

Il ’nuovo', un giovane e robusto campagnolo d'una quindicina di anni circa, alto di statura più di ognuno di noi, rimaneva in un angolo dietro la porta, di modo che lo vedevamo appena. Aveva i capelli tagliati diritti sulla fronte, come un chierichetto di paese: sembrava assennato e molto intimorito. Benché non avesse le spalle larghe, dava l'impressione che la giacchetta di panno verde con i bottoni neri lo stringesse sotto le ascelle; gli spacchi dei risvolti delle maniche lasciavano vedere i polsi arrossati a furia di rimanere scoperti. Le gambe calzate di blu sbucavano da un paio di pantaloni giallastri sostenuti con troppa energia dalle bretelle. Portava scarpe chiodate robuste e mal lucidate.

Cominciammo a recitare le lezioni. Egli stava tutto orecchi ad ascoltarle, attento come se ascoltasse un sermone, senza osare nemmeno incrociare le gambe o appoggiarsi al gomito, e alle due, quando suonò la campana, il professore dovette chiamarlo perché si mettesse in fila con noi.

Avevamo l'abitudine entrando in classe di gettare a terra i berretti per restare con le mani più libere; bisognava lanciarli stando sulla soglia fin sotto il banco, in modo che battessero contro il muro e sollevassero più polvere possibile; così era l'uso.

Ma, sia che non avesse notato la manovra o che non avesse osato metterla in pratica, alla fine della preghiera, il 'nuovo' teneva ancora il berretto sulle ginocchia. Si trattava di uno di quei copricapi non ben definibili, nei quali è possibile trovare gli elementi del cappuccio di pelo, del colbacco, del cappello rotondo, del berretto di lontra e del berretto da notte, una di quelle povere cose, insomma, la cui bruttezza silenziosa ha la stessa profondità d'espressione del viso d'un idiota.

Di forma ovoidale e tenuto teso dalle stecche di balena, cominciava con tre salsicciotti rotondi, poi, separate da una striscia rossa, si alternavano losanghe di velluto e di pelo di coniglio; veniva in seguito una specie di sacco che terminava con un poligono sostenuto da cartone ed era coperto da un complicato ricamo di passamaneria, dal quale pendeva, al termine di un lungo e troppo sottile cordone, un ciuffetto di fili d'oro a guisa di nappina. Il berretto era nuovo di zecca e la visiera splendeva.

"Si alzi”, disse il professore.

Lo scolaro si alzò: il berretto cadde per terra. Tutta la classe scoppiò a ridere.

Egli si chinò per raccoglierlo. Un compagno con una gomitata lo fece di nuovo cadere: il ragazzo ancora una volta lo raccattò.

"Si sbarazzi del suo casco" disse il professore che era un uomo di spirito.

Un'altra clamorosa risata della scolaresca sconcertò il povero ragazzo, tanto che egli non seppe più se dovesse tenere il berretto in mano, lasciarlo per terra o metterselo in testa.

Si rimise a sedere e lo posò sulle ginocchia.

"Si alzi, " riprese il professore "e mi dica il suo nome".

Il 'nuovo', farfugliando, pronunciò un nome incomprensibile.

"Ripeta!"

Si udì lo stesso farfugliamento di sillabe, sommerso dagli schiamazzi della classe.

"Più forte, " gridò l'insegnante "più forte!"

Il 'nuovo', prendendo una decisione eroica, aprì una bocca smisurata e gridò a pieni polmoni, come per chiamare qualcuno, questa parola: "Charbovari".

Di colpo si levò uno strepito che salì in crescendo con acuti scoppi di voce (chi urlava, chi abbaiava, chi pestava i piedi, mentre tutti ripetevano: "Charbovari, Charbovari!") per smorzarsi poi in note isolate, e riprendere all'improvviso in una fila di banchi, ove qualche risata soffocata si levava ancora, simile a un petardo non del tutto spento…”.



L’inizio di “Madame Bovary” è quindi centrato su Charles Bovary, quindi apparentemente un inizio marginale, ma in realtà non lo è, tant’è vero che nel finale dell’opera ritroviamo lo stesso Charles Bovary :

L'indomani, Charles andò a sedersi sulla panca sotto la pergola. Fra i rami intrecciati trapelava la luce; le foglie della vite disegnavano ombre sulla sabbia, il gelsomino spandeva il suo profumo, il cielo era azzurro, le cantaridi ronzavano intorno ai gigli fioriti e Charles si sentiva soffocare come un adolescente per via di quegli indefinibili sentimenti amorosi che gli gonfiavano il cuore afflitto.

Alle sette, la piccola Berthe, che non l'aveva visto per tutto il giorno, venne a cercarlo per la cena.

Aveva la testa arrovesciata contro il muro, gli occhi chiusi, la bocca aperta, e teneva fra le mani una lunga ciocca di capelli neri.

"Papà, su, vieni!" disse la bambina.

E, convinta che stesse scherzando, lo spinse adagio. Charles cadde a terra. Era morto..”.



Una morte dolce in un giardino, assopendosi. Sembra, Flaubert, voler segnalare la vittoria della mediocrità sulle fantasie patetiche della Bovary (nella quale però il Flaubert stesso si riconosce, tanto che parla a un certo punto di un ragazzo che va alla tomba di madame Bovary a piangere e portare fiori : quasi un’allusione simbolica).

Charles Bovary, quindi, nel cui nome si apre il romanzo, è tutt’altro che un personaggio minore, ma la vera vittima di tutta la situazione, la cui vita – alla luce del tradimento muliebre – appare come un fallimento.

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Vediamo ora l’attacco di “Memorie d’una casa di morti” di Dostojevsky :

“La nostra prigione si trovava all’estremità della fortezza, proprio vicino al bastione. Nella speranza di vedere qualche cosa del vasto mondo, si guardava talvolta attraverso le fessure dello steccato ; non si poteva però scorgere altro che un azzurro lembo di cielo e un altro terrapieno, rivestito qua e là d’erbacce, e sul terrapieno le sentinelle che lo percorrevano notte e giorno: veniva allora da pensare che sarebbero trascorsi anni ed anni, e sempre ci si sarebbe avvicinati a quello steccato, per guardare, attraverso le fessure, lo stesso terrapieno, le stesse sentinelle e lo stesso piccolo lembo di cielo, non di quel cielo che è sopra l’ergastolo, ma d’un altro cielo, lontano, libero..”.

Ecco un attacco che ti mette subito a contatto stretto con la situazione.

Tutti questi grandi autori ci raccontano non certo di lotte di draghi o altri eventi memorabili, ma microeventi, spesso catastrofi sì, ma interiori, gesti o atti che rivelano il senso dell’esistenza ( come in Virginia Wolf, nei cui romanzi qualcuno dice che non succede mai niente , o come in Proust ) :

“A lungo, mi sono coricato di buonora. Qualche volta, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che non avevo il tempo di dire a me stesso: "Mi addormento". E, mezz'ora più tardi, il pensiero che era tempo di cercar sonno mi svegliava; volevo posare il libro che credevo di avere ancora fra le mani, e soffiare sul lume; mentre dormivo non avevo smesso di riflettere sulle cose che poco prima stavo leggendo, ma le riflessioni avevano preso una piega un po' particolare; mi sembrava d'essere io stesso quello di cui il libro si occupava: una chiesa, un quartetto, la rivalità di Francesco I e Carlo V “.

Marcel Proust, Dalla parte di Swann







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Da “La coscienza di Zeno “ di Italo Svevo :

“Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psicoanalisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica…”.

Ecco la polemica, non troppo sotterranea, contro la psicanalisi ed il circolo vizioso che talvolta si crea tra psicanalista e paziente.

“Di psico-analisi non parlerò perché qui dentro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psicoanalisi arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio e io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse , che l’autobiografia fosse un buon preludio alla psicanalisi”.

“Ma egli era vecchio”, dice Svevo. Ecco come Svevo svela subito le sue carte, affrontando il tema della vecchiaia che è ricorrente in Svevo (del resto il titolo di un’altra opera di Svevo è “Senilità”). Aggiunge Svevo:

“e io sperai che … l’autobiografia fosse un buon preludio alla psicanalisi”. Ecco Svevo è lontano dall’attenzione maniacale di alcuni autori per i processi psicologici complessi dei loro personaggi; la narrativa non può porsi come meta l’analisi psicologia come tale, ma solo in funzione di quello che il ritratto psicologico può suggerirci del personaggio, facendone una proiezione delle nostre attese, dei nostri desideri, cioè creando un soggetto dalla ricca personalità, in cui noi lettori ci riconosciamo .

“I risultati ..sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie …” : non potrebbe dirsi meglio del rapporto dell’autore con la materia narrativa.

Il testo dovrebbe essere un modo per guarire, per uscire dalla nevrosi, e, in effetti, lo è, ma in modo paradossale, giacché a un bel momento l’autore stesso vi si sottrae.

Il libro poi , dice ancora Svevo, viene pubblicato “per vendetta e sperando che gli dispiaccia..”. e pensare che c’è chi vorrebbe “ realizzarsi” con un opera ! Qui s’ipotizza un’opera che dispiaccia all’autore !).

“ Sappia però che io sono pronto a dividere con lui i lauti onorari che ricaverò da questa pubblicazione, a patto che egli riprenda la cura ….” : ecco sintetizzata, con ironia, la tragedia dell’’autore moderno, in teoria più libero dell’autore dei secoli passati, legato alla committenza, ma in pratica costretto a rivolgersi ad un pubblico che ignora, un mostro dalle cento teste che può a sua volta ignorare l’autore.

Ora, tornando a Svevo, egli è sempre assai autobiografico, e si può dedurre anche dalla sua tecnica narrativa, quando ad es. attribuisce dei pensieri ai suoi personaggi, ma con una goffaggine, una reticenza che è dovuta a quest’autobiografismo da cui Svevo non riesce a liberarsi compiutamente.

Si tratta di un limite evidente, ma altrettanto se non più evidenti sono gli strafalcioni dovuti alla sua imperfetta conoscenza della lingua italiana ( non studiava a scuola).

Quindi, una tecnica narrativa non soddisfacente, condita da errori di ortografia come “Non è difficile d’intenderlo”. Il che, a dimostrazione che la tecnica non è tutto, non impedisce a Svevo di essere quel grande scrittore che è.

Svevo termina così la sua prefazione alla “Coscienza di Zeno” : “Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie che egli ha qui accumulate !...” : come a dire che l’autore scrive qualcosa che finisce per ritorcerglisi contro, giacché è questa la concezione modernissima che l’autore, cioè Svevo stesso, ha del romanzo.

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Attacco de “ L’Ulisse “ di James Joyce

“ Solenne, paffuto Buck Mulligan comparve dall’alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio. Una vestaglia gialla, discinta, gli era sorretta delicatamente sul dietro dalla mite aria mattutina. Levò alto il bacile e intonò:
—Introibo ad altare Dei.


Joyce quindi scopre tutte le sue carte già dall’inizio, come accade in tutta la grande letteratura: quest’uomo officia una specie di messa profana (“Ad altare dei”), in una scena in cui tutto quanto concorre a questa simulazione di rito, a questa commistione di sacro e profano che si basa anche sull’uso accorto degli aggettivi.

“Solenne” (è la dimensione ieratica), poi “paffuto” (e qui si entra in una dimensione più famigliare: ecco la commistione di due elementi che non sono poi così nettamente in contrasto fra loro, e possono così insieme collaborare a dare il tono alla scena).

“Buck Mulligan comparve dall’alto delle scale” ( la scala è da sempre simbolo del potere religioso ma anche di quello laico ) “portando un bacile di schiuma” ( il bacile può appartenere benissimo alla liturgia cattolica) “ su cui erano posati in croce uno specchio “ ( fin dall’antichità lo specchio è un mezzo per il raddoppio magico dell’immagine, un elemento di una valenza simbolica assai ricca ) “ ed un rasoio..” ( che evoca il taglio, la ferita : quindi, specchio e rasoio, due oggetti del quotidiano, ma con valenze simboliche).

“Una vestaglia gialla..” ( ecco qui l’introduzione di un dettaglio narrativo come il colore che irradia sempre i suoi effetti anche nelle righe successive; occorre sempre che il dettaglio narrativo abbia la sua significatività all’interno della narrazione, altrimenti si finisce per disperdere anziché rafforzare il senso dell’azione narrativa. Il giallo – che secondo gli psicologi è il colore della vitalità, un colore intenso, coinvolgente, niente affatto neutro – è quindi qui significativamente usato per rendere la scena appunto più coinvolgente, dare un senso più esplicito all’evento che si sta compiendo.

In linea generale quello che conta è che i dettagli narrativi che si usano, quelli che riguardano l’abbigliamento, o il viso dei personaggi, siano compatibili con la scelta linguistica che si è fatta. Per cui, è anche possibile usare dettagli volgari, ma nell’ambito di un linguaggio volutamente volgare quale quello che usa un Aristofane.

Infatti, la volgarità non è disgiunta necessariamente da un tono espressivo alto dal punto di vista della sapienza stilistica; Plauto, che infilza una serie di parole sconce nelle sue commedie, ha un latino che è riconosciuto come stilisticamente perfetto. Per fare un esempio, occorrerà distinguere se è il caso di usare termini apparentemente simili come idiota, stupido, sciocco, imbecille, secondo il tono espressivo generale.

“Idiota” è ad es. piuttosto forte come apprezzamento (gli idioti erano quelli specializzati in qualche attività) e perciò da usare con attenzione.

“Imbecille” è termine che in origine significa stanco, svuotato, è quindi più leggero” ( è sempre utile risalire alla derivazione etimologica dei termini).

Prosegue Joyce:

“Fermatosi, scrutò la buia scala a chiocciola e chiamò berciando: “Vieni su, Kinch. Vieni su, pauroso gesuita”.
Maestosamente avanzò e ascese la rotonda piazzuola di tiro. Fece dietrofront e con gravità benedisse tre volte la torre, la campagna circostante e i monti che si destavano..”
( i monti che si destavano : ecco l’aggiunta lirica che attenua la solennità della descrizione religiosa. E’ in fondo una connotazione psicologica attribuita al personaggio in modo tale da farlo entrare in piena simbiosi con lo sfondo. Per inciso il Joyce attento ai colori, al lirismo è un Joyce al suo meglio).

“Poi, avvedutosi di Stephen Dedalus, si chinò verso di lui e tracciò rapide croci nell’aria, gorgogliando di gola e tentennando il capo. Stephen Dedalus, contrariato e sonnolento, appoggiò i gomiti sul sommo della scala e guardò con freddezza la tentennante gorgogliante faccia che lo benediceva, cavallina nella lunghezza, e ì chiari capelli senza tonsura, marezzati color quercia chiaro.
Buck Mulligan sbirciò per un attimo sotto lo specchio e poi coprì lestamente il bacile.
—Rientra in caserma, disse severo.
Poi con un tono da predicatore:
— Perché questo, -o miei diletti, è il genuino Cristino: corpo e anima e sangue e sangue. Musica adagio, di grazia. Chiudete gli occhi, rispettabile pubblico. Un momento. C’è un piccolo guaio con quei corpuscoli bianchi. Silenzio, a. tutti.
Sogguardò di sghembo e lanciò un lungo sordo fischio di richiamo, poi con rapita attenzione fece una pausa, e i denti bianchi e regolari gli brillavano qua e là.

Questa di Stephen Dedalus, dotato di tal nome evocativo, è un’apparizione che finisce per essere un po’ mitica, dando rilievo al personaggio e suonando come una “rivelazione della totalità nell’attimo” (il “Moby Dick” di Melville comincia così: “Chiamatemi Ismaele”, che non come dire “Chiamatemi Pasquale”).

”Stephen Dedalus, contrariato e sonnolento..” : ecco una coppia di aggettivi che sembrerebbe in disaccordo reciproco, ed invece trovano qui un punto di incontro espressivo.

Quindi ancora una volta si conferma che nelle opere importanti nell’attacco iniziale sono concentrate le coordinate, la dimensione in cui si collocherà poi tutta l’azione, tra liturgica e blasfema, con questa irrisione della religione, ma al tempo stesso attenzione alla religione stesa ( Joyce ebbe un’educazione religiosa e tutta la sua vita fu una lotta contro la sua impostazione religiosa di fondo, quella impronta religiosa che lo aveva profondamente segnato ).

Quindi, mescolanza di latino liturgico e di frasi quasi gergali. La vocazione di Joyce va verso una riscoperta della vita dei sensi, come uniche certezze in un’epoca di disfacimento generale.

Anche D’Annunzio è assai attento ai fatti sensoriali, solo che non riesce a creare una gerarchia, a cogliere gli elementi essenziali, ma affastella e accumula ( vedi “L’Innocente”, dove non riesce a mettersi dal punto di vista del protagonista che coglie gli elementi essenziali). La sua ingordigia finisce per tradirlo.

Laddove un Platone, nel finale del suo “Convitto”, descrive con la massima semplicità un Socrate che, dopo una specie di iniziazione al sapere, “andò a casa e fece un bagno”, un bagno quasi di significato mistico, che risalta in questa tonalità semireligiosa proprio per la semplicità della frase e la presenza di troppi dettagli.

Ma anche quando, come in Joyce, i dettagli sembrano parecchi, essi sono inseriti pur sempre in una narrazione all’interno della quale diventano anch’essi ricchi di significati. Qui si tratta quasi di definire, con quei dettagli, i limiti sensoriali della conoscenza cui i personaggi possono attingere.

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Da “Gente di Dublino” di Joyce : l’attacco di “Sorelle”

“Non c'era alcuna speranza per lui questa volta: era il terzo attacco. Sera per sera passavo dinanzi alla sua casa (era tempo di vacanze) e scrutavo il quadrato di luce della finestra, e sera per sera lo trovavo illuminato nello stesso modo, debole e uguale…”.

“..questa volta…” : ci mette subito nel bel mezzo di un’azione in corso . Un inizio insomma in medias res ( il cosiddetto discorso indiretto libero). “ Era tempo di vacanza” : è un attacco stupendo, perché ha una serie di effetti di variazione : dentro e fuori, con in più l’annotazione del “tempo di vacanze” .

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Alberto Savinio da “Narrate, gente, la vostra storia” : l’attacco del saggio su Felice Cavallotti :

“ Le guglie del Duomo … sorgevano a mazzi di asparagi nel cielo di Milano..” : ecco un accostamento felice ed inedito, e felice anche perché inedito.

Un narratore con scrupoli reverenziali non avrebbe mai fatto un simile paragone, lo avrebbe considerato magari incongruo, ma è proprio questa la creatività, cioè la capacità di associare immagini, esperienze in modi nuovi e inediti; in cui però gli altri si possano riconoscere. Renard diceva : “Guardare sempre le cose con occhi freschi e fidarsi delle proprie sensazioni”.

Nel saggio sul pittore simbolista svizzero Bocklin, pieno di suggestioni decadenti, Savinio usa un modo “ trasversale” di cominciare che si rivela spesso assai efficace : partire non dall’argomento principale , ma da un altro argomento che sia ugualmente interessante e quindi attirare l’attenzione del lettore, per poi al momento buono fare la svolta e spostarsi sul tema dell’opera.

Dal saggio su “Vincenzo Gemito”:



“Sembrerebbe impossibile accostare Giovanna D’Arco e Vincenzo Gemito( qui si vede come l’inizio sia curato, non forzi troppo il paradosso di quell’accostamento tra un Gemito ed una Giovanna D’Arco finita al rogo, ottenendo così l’adesione ed anche, insieme, l’attenzione per quello che seguirà). Pure una sorte comune associa la Pulzella d’Orleans a “o’ scultore pazzo”. Entrambi furono maltrattati dalla vita. Entrambi si sono meritati una riabilitazione postuma ..” . Insomma, un attacco al limite della provocazione, ma che Savinio riesce a portare in porto.

In un saggio su Apollinaire, Savinio parte dicendo che Apollinaire non ha una data di nascita, lavorandoci sopra con un gioco di parole ( “La storia di una vita comincia alla data di nascita. Nel caso di Guglielmo Apollinaire, questo esordio ci è negato. Le notizie anagrafiche di Apollinaire sono avvolte di oscurità, oscuro del pari è il luogo di nascita. Così voleva lo stesso Apollinaire…).; solo dopo, dice chequando io lo conobbi, Apollinaire abitava al 202 del boulevard Sant –Germaine …( cioè l’attacco tipico dei “coccodrilli” , quelli che vengono intervistati quando qualcuno sta tirando le cuoia).

Insomma, il gusto dell’invenzione, di percorrere strade diverse è ben presente a Savinio, uno scrittore che sa attirarsi la simpatia del lettore. Non attaccare mai in modo dimesso, rinunciatario, perché tutto questo finisce per trasmettersi al lettore. Occorre invece da subito catturare la sua attenzione .

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Nei “Quarantanove racconti”, opera giovanile, Hemingway affina il suo stile in questi pezzi assai brevi in cui cerca il massimo di condensazione con un linguaggio assai chiaro, uno stile smagliante, senza alcun intento di rimando classicista, ma con un gusto per la bellezza della frase, anche se si tratta di frasi apparentemente disadorne, ma in realtà frutto di un grande impegno di essenzialità.

Capitolo IV



“Era una giornata spaventosamente calda. Avevamo costruito sul ponte una barricata assolutamente perfetta. Era semplicemente straordinaria. Una grossa e vecchia grata in ferro battuto che veniva dalla facciata di una casa. Troppo pesante da sollevare e ci potevi sparare attraverso e loro avrebbero dovuto scavalcarla. Era proprio il massimo. Loro cercarono di superarla, e noi li centrammo da quaranta metri. Loro la presero d'assalto e gli ufficiali avanzarono da soli e si misero a trafficarci intorno. Era un ostacolo assolutamente perfetto, i loro ufficiali erano in gambissima. Per noi fu una tremenda delusione quando si seppe che il fianco aveva ceduto, e fummo costretti a ritirarci”.



Per la verità qui Hemingway gigioneggia un po’, ha qualche eccesso di narcisismo stilistico ( “ gli ufficiali erano in gambissima” ) , insomma si compiace un po’ troppo degli effetti “ paradossali”.








Capitolo IX

“Il primo matador ebbe infilata da una cornata la mano che teneva la spada e la folla lo fischiò. Il secondo matador scivolò e il toro l’infilò per la pancia ed egli rimase sospeso in aria tenendosi con la mano ad un corno e premendosi l’altra sul ventre, e il toro lo lanciò contro il muro liberando il corno, ed egli rimase disteso sulla sabbia, poi si alzò come ubriaco e cercò di sfuggire agli uomini che lo portavano via e gridò che voleva la sua spada ma svenne”.

Da notare intanto l’immediatezza da cronaca, ma una cronaca affidata ad una struttura di tipo retorico quasi simmetrica (“Il primo matador … il secondo matador”). Gli effetti finali sono di accumulazione epica. Il linguaggio epico evoca infatti una successione di azioni presentate nella loro pienezza, in cui ogni fatto cioè è importante e sottolineato senza che ci sia una gerarchia d’importanza tra i fatti narrati ( H. s’ispira probabilmente al Flaubert, che usa una scansione ritmica da onda sonora nelle sue pagine).

L’ispirazione di H. comunque ( a parte la suggestione dei vari Flaubert, Stein etc.) deriva sì da un amore per la vita e le sue manifestazioni, ma anche da un culto altrettanto intenso per lo stile. Diciamo quasi un ossessionato dalla forma ( un po’ come, nel campo della pittura, era un Munch che inserisce le sue tematiche esistenziali in un linguaggio figurativo cercato con intensità espressiva, attraverso moduli compositivi fissi, un po’ come Hemingway, appunto).

Gli “e” ripetuti, così tipici nella prosa di H., provocano appunto un’onda epica. Ecco, l’opera d’arte nasce proprio da questo, dalla coerenza delle visioni, dalla convergenza degli effetti ad un fine unico ( in questo caso, si tratta di rappresentare il fallimento profondo e totale dei toreri che non riescono a colpire il toro ) : è la famosa “unità tonale”.

Capitolo XI



“La folla gridò tutto il tempo e lanciò nell’arena pezzi di pane , poi cuscini e fiasche di cuoio da vino, continuando a fischiare ed a urlare. Alla fine il toro, troppo stanco dalle ferite male inferte, piegò le ginocchia e si stese a terra ed uno della quadrilla si piegò sul collo della bestia e col puntillo la uccise. La folla scavalcò la barriera circondando il torero e due uomini l’afferrarono stretto e qualcuno gli tagliò il codino e lo agitava in aria ed un ragazzino l’afferrò e fuggì portandoselo via. Più tardi vidi il torero al caffè. Era basso e bruno in volto, completamente ubriaco, e diceva dopotutto son cose già capitate altre volte, io non sono poi un torero tanto bravo”.



Notare l’inizio assai dinamico : “la folla gridò tutto il tempo” . Poi la citazione del luogo, l’arena, ma introdotto non in modo didascalico ( anzi, sembra descriva un bidone della spazzatura).

H. racconta come uno spettatore racconterebbe ed il lettore aderisce così automaticamente al suo punto di vista, che è un punto di vista “drammatico”, cioè di chi è coinvolto nell’azione descritta.

Col “più tardi vidi il torero al caffè”, c’è uno spostamento immediato della scena, ma l’atmosfera di dramma si conserva integra.

Da notare l’essenzialità del tutto : non c’è una sola battuta superflua, tutte concorrono all’effetto finale.

“Era basso e bruno in volto “: sono dettagli che concorrono perfettamente all’unità tonale. La difesa di sé stesso : “Io non sono poi un torero tanto bravo” , mischia umiliazione e residuo orgoglio , sicuramente una posizione più ricca, umana e credibile che se avesse detto : “ Io sono un cattivo torero”.

H. ha saputo portare a livelli quasi lirici l’ideale di impassibilità di Flaubert.

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Capitolo XIV



Maera giaceva immobile, la testa sulle braccia, il viso nella sabbia. Sentiva il calore e la vischiosità del sangue che aveva perso. Sentiva, ogni volta, il corno arrivare. A volte il toro si limitava a urtarlo con la testa. Una volta il corno lo bucò da parte a parte e Maera lo sentì affondare nella sabbia. Qualcuno tirava il toro per la coda. Lo coprivano di contumelie e gli agitavano la cappa sul muso. Poi il toro sparì. Due o tre uomini sollevarono Maera e si misero a correre con lui verso le barriere oltre il cancello lungo il corridoio sotto le tribune fino all'infermeria. Deposero Maera sul lettino e uno degli uomini andò a chiamare il dottore. Gli altri rimaseroi in piedi. Il dottore arrivò di corsa dal corral dove stava ricucendo i cavalli dei picadores. Dovette fermarsi per lavarsi le mani. Sopra, in tribuna, il pubblico urlava. Maera aveva l’impressione che ogni cosa diventasse sempre più grande, e poi sempre più piccola. Poi diventò sempre più grande, e poi sempre più piccola. Poi tutto si mise a correre sempre più in fretta come quando si accelera la velocità di proiezione di un film. Poi Maera era morto”.



Il personaggio è sempre lui, il torero che sta morendo, e questo dall’inizio alla fine della scena.

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Capitolo XV



Impiccarono Sam Cardinella alle sei del mattino nel corridoio del carcere di contea. Il corridoio era alto e stretto con file di celle da ambo i lati. Tutte le celle erano occupate. Gli uomini erano stati fatti affluire per l'impiccagione. Cinque uomini condannati all'impiccagione erano nelle cinque celle in fondo. Tre degli uomini da impiccare erano negri. Avevano molta paura. Uno dei bianchi sedeva sulla branda con la testa tra le mani

L'altro era disteso sulla branda con una coperta intorno alla testa. Da una porta nel muro uscirono sul palco della forca. Erano in sette, compresi due preti. Sorreggevano Som Caramella, che era in quello stato dalle quattro del mattino. Mentre gli legavano le gambe due guardie lo tenevano su e i due preti gli dicevano qualcosa sottovoce.

«Sii uomo, figlio mio» disse un prete. Quando andarono verso di lui col cappuccio da mettergli in testa Som Caramella perse il controllo dello sfintere. Le guardie che lo avevano sorretto lo lasciarono andare. Erano disgustate, tutt'e due. «E se prendessimo una sedia, Will?» chiese una delle guardie. «Meglio che ce ne procuriamo una» disse un uomo con la bombetta. Quando si ritirarono tutti in fondo al palco, dietro la botola, che era pesantissima, fatta di quercia e d'acciaio e montata su cuscinetti a sfera, Sam Cardinella fu lasciato là seduto, ben legato, col più giovane dei due preti inginocchiato di fianco alla sedia. Il prete saltò indietro sul palco un momento prima che la botola si aprisse.



“Impiccarono Sam Cardinella” : H. comincia dalla fine ( Checov diceva : “ Io comincio dove gli altri finiscono”), in modo che la suspense, anziché scemare , viene anzi accentuata, perché abbiamo subito l’idea della drammaticità del tutto, siamo subito proiettati un un’atmosfera drammatica. A questo punto la scena si sviluppa con un’azione quasi a ritroso. Alla fine quell’uomo con la bombetta serve a creare un effetto di contrasto tra azione drammatica e contesto in cui si svolge, sempre senza perdere il contato con la drammaticità stessa, anzi accentuandola nel momento in cui si da il senso dello squallore in cui quella fine si svolge e quindi squallore della fine medesima.



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L’attacco del racconto “La roba” del verista Giovanni Verga :



“ Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell'ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristemente nell'immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: - Qui di chi è? - sentiva rispondersi: - Di Mazzarò -. E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all'ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: - E qui? - Di Mazzarò”.



Ecco quindi il verista Verga, tutto proteso a riprodurre una realtà sociale, perciò dominato in apparenza da problemi di contenuto, esibire un impianto formale di grande consapevolezza ed ostentazione con quel “ritornello” del viandante che chiede etc., un attacco da carrellata ariosa, con effetti retorici di accumulazione che, se appena ci mettiamo dal punto di vista del viandante medesimo, ci appaiono perfettamente giustificati.

Poi il finale :



“Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all'anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: - Roba mia, vientene con me! “.



Dopo quell’adagio trionfale dell’avvio, questo finale fulmineo che consente di mantenere fino alla fine l’unità espressiva.





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Piccola favola” da “Il messaggio dell’imperatore” di Kafka :


“Ahimè – disse il topo – il mondo diventa ogni giorno più angusto. Prima era talmente vasto che ne avevo paura, corsi avanti e fui felice di vedere finalmente dei muri lontano a destra e a sinistra, ma questi lunghi muri precipitano così in fretta l' un verso l'altro che io mi trovo già nell'ultima camera, e là nell'angolo sta la trappola in cui andrò a cadere. "Non hai che da mutar direzione" disse il gatto, e se lo mangiò”.



Kafka, nelle breve favoletta, parte con un tono tutt’altro che euforico. Il tono euforico infatti risulta fatalmente fatuo, poco credibile. Si sviluppa quindi una costruzione retorica dove prima c’è un effetto di dilatazione del mondo, poi uno di contrazione.


La conclusione : “E se lo mangiò” , è un evento inatteso, che rovescia la situazione : ecco il realismo comico di K. Il senso che si vuol dare è quello del destino che non solo schiaccia l’uomo, ma se ne fa pure beffe. Ma quel costrutto retorico fa sì che la fine, per quanto inattesa, venga lo stesso accettata dal lettore perché si crea un effetto di necessità ineluttabile dovuto alla corrispondenza delle parti.



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Da Joyce : I Dublinesi, episodio : “Un caso pietoso” :

“ In cima alla Magazine Hill si fermò e guardò lungo il fiume verso Dublino, le cui luci splendevano, rosse e invitanti, nella notte fredda. Abbassò gli occhi sul pendio e, ai piedi della discesa, nell'ombra del muro del parco, vide delle figure umane sdraiate. Quegli amori venali e furtivi lo riempirono di disperazione. Inveì contro la rettitudine della sua vita; sentiva di essere stato escluso dal banchetto della vita. Un solo essere umano pareva che lo avesse amato, e lui gli aveva negato vita e felicita: l'aveva condannato all'ignominia, a una morte vergognosa. Sapeva che le figure distese a ridosso del muro lo stavano osservando, desiderose che se ne andasse. Nessuno lo voleva: era escluso dal banchetto della vita. Girò gli occhi verso il grigio fiume scintillante, che serpeggiava verso Dublino. Più in là, oltre il fiume, vide un treno merci uscire dalla stazione di Kingsbridge e tagliare l'oscurità con la testa di fuoco, ostinato e laborioso. Lentamente scomparve; ma si sentiva ancora nelle orecchie, il continuo, cadenzato rumore della macchina ripetere le sillabe del nome di lei. Ritornò sui suoi passi, mentre il ritmo della locomotiva gli rimbombava nelle orecchie. Cominciava a mettere in dubbio la realtà di quello che la memoria gli raccontava. Si fermò sotto un albero e lasciò che quel ritmo si spegnesse. Non la sentiva più vicino nell'oscurità, né la sua voce gli sfiorava l'orecchio. Rimase in ascolto per qualche minuto. Non sentiva niente, adesso, la notte era immersa nel silenzio. Ascoltò ancora: silenzio assoluto. Sentì di essere solo”.

Un paesaggio, un luogo, l’azione che sembra bloccata, statica, preparata dalle battute iniziali, che danno il senso di estraneità, di vita ridotta, di segregazione dell’introverso signor Duffy , riluttante ad un rapporto comunicativo, ma legato ad una donna da un interesse che si acuisce per la fine di lei. “ Così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano “, direbbe il Manzoni. L’accenno al “grigio fiume scintillante “ sembra un richiamo alla irriducibilità delle contraddizioni della realtà . I dettagli ( il treno merci che passa) si armonizzano con la scena, il ritmico rimbombare della macchina coincide con l’innalzarsi dello stile ( “ sillabando il nome di lei”). Alla fine , nel “silenzio assoluto” “sentì che era solo” : il momento della massima solitudine, non di un momento, ma della vita, coincide con quello della massima lontananza dalla donna.

Tutto gravita dunque verso questo punto culminante, come in Hemingway, come in Madame Bovary che finisce con la morte del marito che scopre l’epistolario e muore con le api che gli ronzano intorno .

Così la Mansfield ha finali che sembrano anticipati, affrettati, ma in realtà il rapporto tra inizio e fine c’è, eccome .

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Da “La leggenda del santo bevitore “ di Philip Roth


“Una sera di primavera dell’anno 1934 un signore di età matura scese gli scalini di pietra che da uno dei ponti della Senna conducono alle rive del fiume. Là sono soliti dormire, o meglio accamparsi, i vagabondi di Parigi, cosa nota quasi a tutti, ma che pur merita ricordare in questa occasione.
Uno di tali vagabondi veniva per caso incontro al signore maturo che, del resto, era vestito bene e dava l’impressione di un viaggiatore curioso di visitare i luoghi caratteristici di una città straniera. Il vagabondo aveva un aspetto pietoso e malconcio, proprio come tutti gli altri di cui condivideva la sorte, ma al signore ben vestito e maturo parve degno di una speciale attenzione; il perché non sappiamo. Era, come si è detto, già sera, e sotto i ponti, in riva al fiume, faceva più buio che sopra, sui ponti e sul Lungosenna. Il vagabondo dall’aspetto malconcio barcollava un po’. Sembrava non si accorgesse dell’anziano signore ben vestito. Costui invece, che non barcollava affatto ma veniva avanti dritto con passo sicuro, si era evidentemente già accorto di lontano dell’uomo barcollante. Il signore maturo sbarrò addirittura il passo al tipo malconcio. Entrambi si fermarono, l’uno di fronte all’altro.
« Dove va, fratello? » chiese l’anziano signore ben vestito.
L’altro lo guardò un momento, poi disse:
« Non sapevo di avere un fratello, e non so dove la strada mi porta ».
« Io cercherò di indicarle la strada » disse il signore. « Ma non deve inquietarsi con me se la prego di un favore insolito ».
« Sono pronto a ogni servizio » rispose il vagabondo.
« Vedo bene che lei ha qualche difetto. Ma è Dio a porla sulla mia strada. Lei avrà sicuramente bisogno di soldi, non se la prenda a male per queste parole! Io ne ho troppi. Non vuole dirmi francamente quanto ha bisogno, almeno per il momento?
L’altro ci pensò qualche secondo, poi disse: « Venti franchi ».
« Ma è senz’altro troppo poco » rispose il signore. « Gliene occorreranno certamente duecento ».
Il vagabondo indietreggiò di un passo, pareva sul punto di cadere, tuttavia riuscì a rimanere in piedi, pur barcollante. Poi disse: « È chiaro che preferisco duecento franchi a venti, ma sono un uomo d’onore. Pare che lei non mi capisca. Il denaro che mi offre, non posso accettarlo, e questo per i seguenti motivi: primo, perché non ho il piacere di conoscerla; secondo, ‘perché non so come e quando potrò renderglielo; terzo, perché lei non ha nemmeno la possibilità di sollecitarne la restituzione. Non ho infatti un indirizzo.- Sto quasi ogni giorno sotto un ponte o l’altro di questo fiume. Ma come ho già affermato una volta, sono un uomo d’onore, anche se senza indirizzo ».
Anch’io non ho indirizzo, » rispose il signore maturo « vivo anch’io ogni giorno sotto un ponte o l’altro, ciò nonostante la prego di accettare amichevolmente i duecento franchi, una somma ridicola, del re-
sto..”..

C’è mescolanza di tecniche diverse in quest’attacco : si comincia con un commento del narratore , una narrazione dal di fuori resa con estrema semplicità visiva. Poi il personaggio viene abbandonato per il vagabondo : un intervento ancora più deciso del narratore onnisciente.

“Il perché non sappiamo” , dice l’autore ad un certo punto , suggerendo in modo sornione il limite della narrazione. “Sembrava non si accorgesse dell’anziano signore ben vestito” : qui il narratore onnisciente teme di esserlo troppo e non vuole sottrarre mistero alla narrazione.

Comunque, Roth preferisce guardare le cose dal di fuori, non farsi coinvolgere dai personaggi e dalle loro vicende.

La narrazione poi prosegue nella coerenza di un punto di vista esterno di chi sa e non sa , con un dialogo ricco di tensione : “Sono pronto a ogni servizio “ rispose il vagabondo. “Vedo bene che lei ha qualche difetto” etc.

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Nell’attacco di “Senilità di Svevo : Subito, con le prime parole che le rivolse, volle avvisarla che non intendeva compromettersi in una relazione troppo seria …” , il lettore è subito coinvolto. Parlò cioè a un dipresso così: - T'amo molto e per il tuo bene desidero ci si metta d'accordo di andare molto cauti. - La parola era tanto prudente ch'era difficile di crederla detta per amore altrui, e un po' più franca avrebbe dovuto suonare così: - Mi piaci molto, ma nella mia vita non potrai essere giammai più importante di un giocattolo. Ho altri doveri io, la mia carriera, la mia famiglia..”.

E’ un linguaggio un po’ dissociato, come il personaggio, del resto.

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Quanto al dialogo inserito nel contesto narrativo , esso deve funzionare nella sua complessità e non nella singola battuta ( come nel dialogo teatrale) : ogni battuta deve essere legata all’altra, avere un dinamismo intermo alla narrazione, senza cercare confronti con le battute della vita quotidiana).

In “Pel di carota” di Renard c’è un uso stupendo di dialoghi inseriti nel contesto. Essi funzionano non perché ci informano su qualcosa, ma come confronto di psicologie, per la loro tensione emotiva, per la loro plasticità. I dialoghi tra due personaggi in conflitto come Don Chisciotte e Sancho Panza sono i più riusciti. L’uno e l’altro ciechi, uno che crede solo nel mondo che ha appreso attraverso i libri, l’altro che crede solo nell’esperienza dei sensi. Una sfasatura tra due personaggi, Romeo che è innamorato di Giulietta e Mercuzio che fa discorsi oscuri sulla sessualità , è il meglio: l’intensità della passione messa a confronto col sarcasmo.

La verosimiglianza dei dialoghi è importante, ma non sufficiente : bisogna tagliare le battute che non creano tensione, che sono prive d’interesse; usare battute che valgano in generale e non solo per la situazione descritta.











Passato e presente

Il narratore deve lavorare sulle parole, come il pittore sulla tela, senza necessariamente pensare prima a quello che si deve scrivere, agli sviluppi etc.

Allo stesso modo, scrivendo per es. un articolo, non cercare “dopo” una parola che non viene : non la si troverà mai più.

Mai partire dal presupposto che tutto è già stato detto e scritto, ma misurarsi con la pagina vuota in piena libertà.

La pagina va riempita ma mano senza catturarla in anticipo col pensiero. Tutta l’attesa va concentrata su quello che verrà fuori quando si comincerà a scrivere ( la curiosità su quello che si sta per scrivere è assai feconda).

La scrittura non è la trascrizione di quel che si dice o si pensa : è un’operazione completamente diversa, autonoma. Borges spiega di un suo personaggio che a furia di raccontare di una battaglia non si ricordava più della battaglia, ma solo del modo in cui altre volte l’aveva descritta : questo è il pericolo.

Le parole in una prosa sapiente, calcolata, ricca, espressiva hanno gli stessi effetti di un palla da tennis giocata da giocatori abili, sono cioè stimolanti, inventive, hanno sottintesi ironici, sfumature patetiche etc.

Questo però necessita di qualcosa di diverso dalla comunicazione verbale dove non c’è il tempo, l’abitudine, l’attitudine agli effetti imprevedibili.

Lo scrivere è collocare le parole in una successione efficace, che deve funzionare con un tipo di lettura senza pathos.

Vediamo come gioca con le parole Kafka ne “Gli alberi “ :



“Perché siamo come tronchi nella neve. Apparentemente vi sono appoggiati, lisci, sopra, e con una piccola scossa si dovrebbe poterli spingere da una parte. No, non si può, perché sono legati solidamente al terreno. Ma guarda, anche questa è solo un’apparenza”.

Un gioco di apparenze che ha però un grande realismo : gli alberi possono darci questa sensazione.

In un testo come questo, brevissimo, gli effetti sono ottenuti lavorando sulle parole una dopo l’altra, a cominciare da quel “perché “ iniziale che arriva già ad una conclusione.

La pagina è il campo su cui ci si misura davvero, tutto il lavoro mentale che ci si fa sopra è spesso superfluo, inutile alla sua economia, come la pagina stessa dimostrerà appena messo nero su bianco.

Scrivere è semplicemente trovare le parole giuste. L’importante è un enorme interesse per le parole, un senso assai forte del linguaggio, come un pittore che abbia una forte attrazione per il nero o per il giallo, come un suonatore di jazz che magari non conosce bene le note, ma ha un fortissimo interesse per il linguaggio musicale che va elaborando. Bisogna insomma avere, quando si scrive, sempre un atteggiamento di attesa.

Arrivare ad un linguaggio personale, che riconosciamo come nostro, è importante, ma la cosa non va intesa in senso narcisistico. L’ideale sarebbe scrivere a degli adulti con un linguaggio che anche i bambini capiscono, raccontando solo le cose che premono alla gola.

E’ utile anche porsi il problema dell’utilità per il lettore ( vedi Machiavelli : “ ..Volendo fare cosa utile a chi l’intenda” ). L’altro ci legge perché scriviamo qualcosa che gli serve ( se si tratta di un libro di fantasia, dobbiamo dargli emozioni) . La letteratura è comunicazione con gli altri, è come un oggetto che si forgia, possibilmente un oggetto ricco di significati per chi lo avvicina … se riesce , bene, altrimenti … non si può certo giocare tutta la propria vita sulla letteratura.





La costruzione del testo : un esempio



Dietro una bella storia c’è sempre un sapientissimo lavoro di costruzione. Per un narratore conoscere i ferri del mestiere è condizione non sufficiente ma senz’altro necessaria. Federico Garcia Lorca, considerato all’epoca l’artista più ispirato, a proposito della sua poesia scrive : “Se è vero che sono poeta per grazia di Dio – o del demonio – lo sono anche per merito della tecnica e dell’ esfuerzo, e perché so con certezza cos’è una poesia “.

Ed ecco il racconto La morte di Ivan Ilic di Tolstoj.

Il primo, decisivo artificio narrativo è di far cominciare la storia dalla fine. La prima scena comincia infatti così :



Nel grande edificio del tribunale, durante una pausa dell'udienza sul caso Mel'vinskij, i giudici e il procuratore si erano riuniti nello studio di Ivan Egorovic Sebek e avevano preso a parlare del celebre affare Krasovskij. Fedor Vasil'evic si infervorava a sostenere l'incompetenza a procedere, Ivan Egorovic restava della propria idea, mentre Petr Ivanovic, che non era mai entrato nella discussione, continuava a restarne fuori e sfogliava il "Messaggero" appena arrivato.
- Signori! -esclamò ad un tratto,- è morto Ivan Il'ic.



Subito dopo Tolstoj presenta l’ambiente giudiziario in cui il “cadavere” ha trascorso gran parte della vita . Da questa descrizione si capisce chi era Ivan : un giudice arrivista e meschino come gli altri, E per costoro infatti la vera notizia non è tanto la morte del collega quanto la liberazione di una poltrona di prestigio. Ivan viene dunque presentato in modo “indiretto”.

Dopo aver steso già dall’inizio sulla narrazione il drappo nero e pesante di un destino certo, la morte, dal secondo capitolo ha inizio la biografia del protagonista ( l’analessi, cioè la rievocazione in flashback degli eventi passati della sua vita ) :



La storia della vita di Ivan Il'ic era delle più semplici, delle più comuni e delle più terribili.



Vediamo Ivan , ancora in buona salute, al colmo della felicità per i successi della carriera. Tutto procede a meraviglia, se non si tiene conto di un comico ruzzolone per le scale e del piccolo livido su un fianco ( qui scatta la metonimia, una miccia che si accende ma esploderà più tardi,un segnale che promette uno sviluppo futuro , come il fazzoletto di Desdemona sottratto da Jago o il ventaglio della marchesa Attavanti raccolto da Scarpia nella Tosca : quella caduta è l’inizio della fine, ma il protagonista ne è ancora ignaro).

Conoscendo l’epilogo della storia, in ogni azione del protagonista riconosciamo una vanità : quanto più il protagonista è felice, tanto più cupa appare la sua gioia. Questo attira su di lui la pena del lettore.

Il quarto capitolo comincia con un “Tutti erano in buona salute”.

Si apre un primo squarcio sulla verità che il lettore conosce : mano a mano che la narrazione prosegue, Ivan appare sempre più consapevole della sua sorte. A quel punto, coincidendo ormai le informazioni del lettore e quelle del protagonista , lo spostamento temporale dell’inizio esaurisce la sua funzione e la storia prosegue nella naturale successione dei fatti.

Dunque, nella sua sapiente organizzazione del lavoro drammaturgico, Tolstoj da un lato si lascia andare con il protagonista, vive dal di dentro il suo percorso psicologico, fino alla catarsi finale che passa attraverso il rifiuto dei rituali familiari ; dall’altro non dimentica neanche un istante il lettore, calibrando millimetricamente su di lui la dinamica narrativa .Insomma, un occhio ai personaggi e l’altro al lettore.



Infine, la differenza tra romanzo breve e racconto lungo : il romanzo breve ha una sua articolazione complessa spaziale e temporale ( esempio : “Morte a Venezia” ). Maupassant invece fa dei racconti lunghi, ma che si avvicinano molto ai romanzi perché condensano il senso di un’esistenza. In ogni caso, nel racconto lungo l’orizzonte è più circoscritto, esso gravita verso una scena risolutiva, verso un elemento decisivo, mentre il romanzo segue i personaggi nei loro diversi destini ( vedi i Promessi Sposi dove i vari personaggi sono seguiti fino in fondo, al di là dei due protagonisti Renzo e Lucia).




















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