UN PO’ DI STORIA
I primi “bianchi” si affacciano, circa cinquecento anni fa’, su queste terre apparentemente “vergini”, ma in realtà abitate perlomeno dai primi secoli dell’era cristiana dagli austronesiani giunti quaggiù al termine di una delle più importanti, misteriose e defatiganti migrazioni di massa della storia lungo la rotta Indonesia-India-Africa.
Trovano ovunque gente ospitale e gentile che accorre loro incontro col sorriso sulle labbra e le braccia colme di doni augurali.
Potrebbero – se lo desiderano- stabilirsi laggiù sulle terre che i nativi sono pronti a concedergli e convivere pacificamente nei secoli dei secoli. E invece no, il demone della cupidigia li possiede ( del resto sono tutti avanzi di galera, di cui la patria d’origine è stata ben felice di sbarazzarsi spedendoli lontano) ; per giunta, chi li guida è portatore d’una ideologia che considera inferiori e perciò disprezzabili, poco più che bestie da convertire o da distruggere, tutti quelli che non la condividono.
E così è lo scontro. I nativi si difendono con accanimento per un secolo e mezzo, finchè i portoghesi e i francesi che seguono sono costretti a riprendere il largo.
“ Gli dicemmo: eccovi delle terre ..che le vostre donne le coltivino. Siate giusti, siate buoni, e diverrete nostri fratelli. Quelli promisero e intanto scavavano trincee. Poi innalzarono un fortino , con bocche di bronzo che celavano il tuono. I loro preti volevano darci un dio sconosciuto ; essi parlavano di obbedienza e schiavitù : piuttosto la morte !, fu la risposta. E fu strage, lunga e terribile. Ma anche se vomitavano fulmini, furono tutti sterminati !…".
Gli indigeni ne andavano giustamente fieri. Avevano dato filo da torcere agli invasori assai più di quanto non fossero stati capaci di fare i nativi americani, sterminati quasi fino all’ultimo uomo da spagnoli,portoghesi e inglesi in un terribile olocausto.
Da allora e fino ai primi dell’Ottocento da quelle parti s’erano visti solo bucanieri, per i quali l’isola era la base ideale per attaccare le navi di passaggio per l’Oceano Indiano sulla rotta commerciale tra India ed Egitto . Alcuni di loro ci si erano definitivamente “accasati”, magari sposando principesse e fondando dinastie longeve.
A un certo punto,però, le Compagnie commerciali senza scrupoli ai cui ordini segretamente operavano avevano ” deciso di scaricarli. Era il momento di cercare manodopera più a buon mercato di quella disponibile sulla ormai inflazionata Cote d'Or, da spedire in catene nelle sempre più estese piantagioni americane o delle Indie Occidentali. Per ottenerla senza colpo ferire, le Compagnie incoraggiavano le guerre tribali tra i clan malgasci , e poi ne acquistavano i prigionieri per un barile di polvere da sparo, dei fucili antiquati , delle stoffe….
E la storia si era ripetuta quando, alla fine dell’Ottocento, i francesi erano tornati in forze sull’isola : il loro corpo di spedizione aveva trovato nei clan Sakalava del nordovest dei preziosi alleati nella marcia vittoriosa su Tana, dove una monarchia corrotta ed invisa ai più non era riuscita ad organizzare nemmeno una parvenza di resistenza.
La regina Ranavalona firma la pace sperando di conservare il trono, ma a questo punto scoppia un’insurrezione generale contro i francesi e la stessa Corona, che durerà dieci lunghi anni, nonostante la feroce repressione del generale Gallieni.
Sono i primi germi del rinato nazionalismo malgascio che il potere coloniale cercherà di soffocare, ancora una volta, mettendo le etnie le une contro le altre.
E all’indomani dell’indipendenza, proclamata nel fatidico millenovecentosessanta, erano stati i funzionari inviati dal governo centrale del tiranno Tsiranana a dirigere i vari “cantoni” a riattizzare il malcontento, presentandosi in tutto e per tutto come i degni rimpiazzi dei padroni stranieri appena partiti.
Quella stagione postcoloniale era stata archiviata. Cacciato il tiranno era arrivato il giovanissimo, filiforme colonnello Ratsimandrava, sbandierando il vessillo di un socialismo dal volto umano, basato sul rafforzamento delle autonomie locali, i famosi “fokolona” : dura due settimane, poi viene ucciso in un’imboscata. Segue il lungo regno del capitano Ratsiraka, che durerà fino al 2002. Oggi al potere c’è un giovanissimo ex conduttore radiofonico, ma la situazione è politicamente molto incerta, perché il suo governo non è riconosciuto quasi da nessuno.
TRE UOMINI A ZONZO PER L’ISOLA ROSSA
Aprile 1980. Arriviamo a Tanà (sarebbe Antananarivo per chi ama gli scioglilingua malgasci), la capitale ventosa sull’altipiano centrale, dopo quasi dodici ore di volo da Milano, con scalo a Mogadiscio e Nairobi. Alloggiamo all’Hotel du Lido, in avenue 26 giugno 1960, sopra lo Zoma, il grande mercato settimanale di Tanà,che si svolge proprio il giorno dopo, venerdì.
La notte tra giovedì e venerdì passa dunque insonne a guardare di sotto le piccole, frenetiche e vocianti formichine che cominciano nel cuore della notte a preparare i banchi (e fracassare gli zebedei).
Dopo aver trascorso buona parte del tempo a osservare il viavai, di buon mattino ordino al telefono interno la colazione e m'immergo con un po' di disgusto nell'acqua torbida di calcare e terra della doccia.
Dopo una mezz'ora abbondante s'affaccia alla stanza un magro e anziano cameriere infilato in una divisa sgualcita e abbondante assai simile ad un pigiama, che fa un contrasto quasi comico con la dignità dei gesti. Il tè che mi porge nel vassoio ha più o meno lo stesso colore torbido dell'acqua della doccia, ma l'uomo è simpatico e garbato e gli allungo un franco malgascio.
Scendiamo a vedere il gran marchè .
Lo sguardo vaga sperduto sul vasto giro delle piramidi di frutta e legumi ed animali sotto una fungaia di ombrelloni bianchi, sovrastati a loro volta, qua e là , dai tetti rossi dei magazzini a forma di padiglione: una ricchezza in svendita, metafora d'un paese che, nonostante tutto, non riesce a venir fuori dalla sua crisi endemica…
Col taxi ci facciamo condurre alla gare routiere du Nord, all'estrema periferia della città, per noleggiare un taxi-brousse con autista, in pratica una panciuta Peugeot degli anni cinquanta, con direzione Diego-Suarez, la capitale dell’estremo nord.
A tutta prima l'autista del mezzo non vuole saperne di partire per un viaggio così lungo, poi si lascia convincere contando probabilmente su qualche inconveniente che accorci il viaggio a lui ed al secondo autista ( si viaggia in coppia per motivi di sicurezza). Partiamo dopo la solita, estenuante trattativa sul prezzo della corsa.
Mentre i due davanti conversano fittamente, cerco di concentrarmi sul paesaggio, per quel che è consentito dalle condizioni non eccezionali della RN6, che peggiorano sensibilmente man mano che ci si allontana da Tana in un saliscendi continuo tra dolci colline e valli qua e là punteggiate da rari eucaliptus, tappezzate d’un verde uniforme che dirada man mano che l’altopiano lascia il posto all'arida savana.
Sul ponte di Maevatana, a metà strada, l’auto incrocia le acque rosseggianti, cariche di laterite, del Betsiboka che ribollono nella tumultuosa discesa a valle: come se la terra, ferita a morte dall'insensata deforestazione, fosse in preda ad una devastante emorragia( non per niente si chiama “l’isola rossa”).
Nel frattempo io ho già vomitato due volte la colazione, un po’ per le condizioni della strada e un po’ per il mio stomaco debole.
Superato il fiume, le tracce d’asfalto diventavano sempre più sporadiche, fino a sparire nella polvere d’una pista che non promette niente di buono ; difatti dopo qualche chilometro un torrente straripato sbarra la strada ( la stagione delle piogge, che dura più o meno da novembre a febbraio, con contorno di devastanti cicloni e inondazioni , è appena alle nostre spalle).
Il viaggio deve proseguire con altri mezzi, con gran soddisfazione del tassista.
Ci spogliamo e scivoliamo nell'acqua fino alla cintola con la borsa da viaggio sul capo per passare dall’altra parte: mi sento il portatore bantù di qualche spedizione coloniale, o il protagonista d’una avventura salgariana, il che mi aiuta molto a superare il fastidio di quella contingenza. Fortunatamente, il primo abitato non è distante.
Ad Antsohihy, quattro case di fango e paglia lungo la pista, pranziamo all’unica costruzione di legno della zona, una locanda di una grassa e soave negra.
Brava ai fornelli, dunque, ma per sovrappiù zelante al tavolo, trova modo di allungarmi tra una portata e l'altra il Midi Madagasikara, il giornale locale scritto per metà in malgascio e per metà in francese. Purtroppo, risale a qualche settimana avanti.
In prima pagina, l’unica leggibile perché scritta in francese, campeggia il bel faccione bruno del capitano Ratsiraka, il ras del Paese: l’uomo promette di cambiare politica, di aprire al mercato, di rinunciare alle nazionalizzazioni ecc.,
Avremmo potuto fermarci per la notte, ma una maledetta fretta d’arrivare a Diego ci sospinge in affollata compagnia sulle panche d’una scomoda jeep che fa la spola col capoluogo. Inutile dire che in più di un’occasione siamo dovuti scendere e trarre la jeep dal fango a forza di funi e di braccia.
Arriviamo a Diego-Suarez, città piuttosto squallida in centro, a parte l’ avenue Colbert, la via principale in pendenza che dalla tetra piazza del municipio in puro stile “realismo socialista” di provincia, tra edifici in stile coloniale dagli improbabili colori rosa pastello come l’Hotel de la Poste o la monumentale Banque Commerciale de Madagascar col suo pronao colonnato, sbocca a nord nella immensa rada di Ramena, grande quasi quanto quella di Rio de Janeiro, col suo grazioso isolotto tondeggiante all’imbocco, un tempo utilizzato per sacrifici tribali. Di tanto in tanto qualche bimbetto ci agita davanti al naso i coni di carta pieni di arachidi, urlando con quanto fiato ha in gola il suo pigolante “cacahete!cacahete!”.
Siamo ospiti di Olivio, un genovese vecchia conoscenza di famiglia di Sergio Pacifici, trasferitosi da molti anni laggiù per aprirvi una ditta di import-export di pesce, che ha poi intestato a suo figlio, sempre in giro col suo bialberi a concludere affari o, più spesso, a trasbordare turisti nei vari atolli attorno all’isola madre. Ci spiega che gli stranieri che vogliono aprire un’attività in Madagascar devono prendersi dei partners “locali” e a loro è toccato un tipo un po’ losco …
Mentre Olivio parla, nella penombra del soggiorno il mio sguardo è attratto soprattutto dalla sua gamba destra gonfia, assurdamente gonfia e arrossata sul corpo rinsecchito (un’infezione da qualche micidiale insetto tropicale, ma le insidie peggiori sono la malaria e la schistosomiasi, che si prende toccando lumache e simili nei corsi d’acqua) che il vecchio tiene allungata su una sedia, mentre Augustine, la sua factotum negra, scivola silenziosa per la stanza con una ramazza.
Ci spiega che gli indigeni, i sakalava, sono in buona parte i discendenti di incroci tra i pirati che nell’isola si appostavano per assalire le navi di passaggio per l’Oceano Indiano e le indigene (proprio nella baia di Ramena, nel 1695 un ufficiale di marina francese, un frate italiano ed un pirata americano costruiscono una cittadella fortificata che sarà il primo nucleo di una repubblica chiamata Libertalia “ in nome di Dio e della libertà”: niente schiavi, la terra a chi la coltiva ecc., ma la cosa finisce dopo dieci anni). Dunque, c’è poco da fidarsi …. Poi sono arrivati i francesi, filibustieri peggiori di quegli altri…. Comunque ai tempi coloniali la città era più viva di oggi, c’era un bel padiglione per i concerti, che ora arrugginisce in mezzo alle erbacce … quando la guarnigione è partita c’era mezzo paese a salutarla e in prima fila a cantare la marsigliese e sventolare drappi tricolori c’erano le prostitute.
Dopo un paio di notti ci trasferiamo, anzi ci iberniamo in un albergo-ghiacciaia col condizionatore a mille, poi in un più confortevole albergo-ristorante, l’hotel La Rascasse , all'angolo della centralissima piazza Foch gestito dal solito francese. Come dappertutto, si mangia discretamente bene, soprattutto pesce, e si spende poco.
In piazza facciamo conoscenza con un gruppo di liceali. Ci parlano della loro scuola, un tempo prestigiosa, ora a loro dire precipitata al livello più basso della sua storia, gli insegnanti migliori che appena possono scappano via, restano solo i peggiori, alcuni mandati da Tana per punizione ; dei genitori che s'indebitano per pagar loro gli studi. Sembrano avercela parecchio con Ratsiraka.
Puntata a Nosy Be.
Da Helville, il capoluogo, approdiamo in taxi ad Ambatoloaka. Ci accampiamo in spiaggia sotto una tenda che però può ospitare solo due persone, e il terzo dorme all’addiaccio, magari sotto una pioggia battente com’è successo al sottoscritto.
Per buona parte del giorno non c’è nessun segno apparente di vita all'intorno di quella baia infinita che i bianchi hanno colonizzato, respingendo all’interno ogni traccia dell’antico villaggio di pescatori .
Ad est si erge un piccolo promontorio, mentre ad ovest la baia pare immergersi nel mare verticale con un' ultima , arcuata lingua di sabbia scura: la sensazione di essere soli, al nadir di quell’unico abbraccio luminoso di terra cielo e mare, da le vertigini.
Ogni tanto una piroga a bilanciere, la bella vela a trapezio accuratamente bordata per fare il pieno di vento, scivola silenziosa sulla spiaggia, mentre dalla riva qualcuno lancia a ripetizione dei misteriosi suoni gutturali (un saluto? o una formula di rito per rendere grazie agli dei del mare che hanno assistito il marinaio durante la traversata ? ).
Procedendo verso l'interno, man mano che la luce si fa strada davanti a me, scopro le strane architetture che i fusti molli delle piante liana disegnano sconfinando tra un tronco e l'altro, l'ampio ventaglio dei ravinala a tutto azimut , la taglia enorme di altre piante di cui non conosco il nome.
Ad un certo punto il bordo sinistro della pista si spalanca su un piccolo specchio d'acqua; qua e la' tronchi anneriti e contorti di ylang-ylang emergono dal viola cupo dello stagno mimando coi rami nodosi levati al cielo -così mi pare - i gesti disperati di naufraghi.
Avvicinandosi mi accorgo che i sassi tutt'attorno sono di pietra lavica; si tratta perciò di un cratere, ovviamente spento. Mi fermo a fissare quella scena, vagamente turbato.
Su quelle rive è facile immaginare i riti propiziatori di qualche vecchio ombiasy circondato di indigeni accovacciati coi tamburi stretti tra le gambe . Infatti per gli indigeni tutti i crateri dell'isola sono luoghi sacri con una serie di proibizioni : non si può fumare etc. Gli spiriti degli avi Sakalava abitano quei luoghi. Un tempo vivevano lontano di qui, nelle ultime terre a levante dell'isola madre, là dove scorre un fiume chiamato Morondava._Poi, poco a poco, risalendo il litorale di fiume in fiume, sono approdati qui. Ora riposano e nessuno deve turbare il loro sonno.
C’è il culto degli antenati, in Madagascar, che arriva a livelli insuperati : a volte le tombe sono più grandi e più belle delle case, e per esumare i propri morti con apposita cerimonia molti sperperano tutto il patrimonio di famiglia .
” Gli avi ci proteggono dall'aldilà e noi a loro chiediamo consigli, confessiamo i nostri errori, imploriamo favori: la pioggia se la siccità ci angustia o la fecondità per una donna sterile. Per questo vogliamo che siano con noi, vicini a noi, ed ognuno sulla propria terra costruisce la tomba di famiglia, e perciò vedrai tombe tra le risaie o sulle colline coltivate a grano. E dopo la prima sepoltura ce ne sarà un'altra, perché occorre spogliare le ossa della carne ridotta in polvere e riavvolgerle in un nuovo involucro, prima di deporlo per l'ultima volta nelle loro casse. Tutto questo si fa per loro, e perché facciano più felice la vita di chi resta, giacché senza il loro aiuto niente può portarsi a compimento. E se poi questo aiuto ce lo negassero, se rifiutassero di proteggere i vivi? Ebbene, allora bisogna che li si svegli dal loro sonno, e andremo sui bordi dei laghi sacri a farlo, noi sì che possiamo...".
Arrivo alla “baracca", una costruzione di legno a tronchi sovrapposti, scale d'accesso comprese. Sbirciando attraverso la finestra del retrobottega, si scorge la sagoma di profilo della vecchia commerciante indiana china all'ordito sotto il ritratto quasi a grandezza naturale d'un impettito ufficiale di marina, probabilmente il marito.
All'arrivo dei clienti, la tenda di tela cinz a fiori scivola via e appare la vecchia, lo sguardo assente dietro le profonde orbite nere. Ordino succo di melograno, jus de grenadelle, buonissimo.
Al tavolo accanto siede un giovane in divisa da marinaio con una gran massa di capelli crespi su un bel viso affilato.
E’ un somalo, e dice di conoscere tutti o quasi i porti pescherecci piccoli e grandi del pianeta e perfino le caratteristiche salienti dei loro abitanti. Messo alla prova, cita persino Molfetta e i suoi abitanti, che descrive capaci di entrare in acqua a pescare con le mani nude ( descrizione non del tutto inverosimile).
La mattina dopo un cupo suono di sirena risuona di buon ora nella tenda .
Nella rada proprio di fronte alla tenda staziona un piccolo vascello. . Aspettano proprio noi.
Il padrone del non lontano Residence, un napoletano, venuto a sapere di quei connazionali accampati, con squisita cortesia ha ordinato di passarci a prendere per un giro gratuito verso Nosy Tanikely e Nosy Komba .
All'apparire delle isole, coi piccoli fari assediati dalla vegetazione, il pilota spegne i motori mentre la barca va dolcemente alla deriva incrociando folti branchi delle più variopinte specie di pesci tropicale che paino nuotare a pelo d'acqua sopra l'alta barriera corallina.
Il giorno dopo ci dirigiamo verso Helville. Ci fermiamo all’incrocio tra la pista per Helville e la rotaia a scartamento ridotto che dai campi di canna da zucchero conduce allo zuccherificio di Zamazar , per fare l’autostop.
Arriva un truck malandato , in un frastuono di bottiglie vuote di vino cozzanti l'una con l'altra nelle casse sul pianale posteriore.
Il guidatore è il fornitore di alcolici della Residence, un francese panciuto e rubizzo che ben figurerebbe sull'etichetta del suo Bon Freres assieme ai robusti fraticelli che vi compaiono.
Scesi in città, ci spingiamo verso l'antico "porto degli stranieri", affollato di bancarelle. I mercanti vi accorrono fin dai tempi in cui Nosy Be si trovava su una delle principali rotte commerciali controllate dalla mitica Zanzibar .
Un improvviso e violento scroscio d'acqua semina il panico. Ci rifugiamo in una bottega dalle basse volte in pietra, aggirandoci tra i sacchi di juta colmi di profumatissimi chiodi di garofano, cannella, legumi e cereali accatastati qua e là in una confusione che sa di liquidazione, nell'indifferenza del titolare tutto impegnato a far di conto.
Cessa di piovere. Fuori, le strade in terra battuta sono ridotte a pantani. Grossi scarafaggi galleggiavano nei rigagnoli gonfi d'acqua lungo i marciapiedi.
Torniamo a Diego in tempo per assistere allo stadio ad un incontro di calcio tra la squadra locale e la nazionale militare. Abbiamo cosi modo di ammirare, con relativa sorpresa, l'eleganza delle movenze e, soprattutto, l" insospettabile abilità tecnica di quei giocatori. Ci chiediamo cosa manchi alle squadre africane per competere alla pari con le più blasonate equipe del resto del mondo: forse soltanto la mentalità vincente.
Nell'intervallo mi alzo d'improvviso dal mio posto in tribuna in preda ad una raptus agonistico, tirandomi dietro Sergio , che è un buon portiere.
Senza chiedere permesso ad alcuno ( i malgasci ci lasciano fare tutto, sembrano anzi compiaciuti del nostro interesse: al fondo sembra esserci quel rispetto timoroso verso i bianchi che hanno tutti i popoli con un passato coloniale) mi avvento sul pallone che giace a centro campo, mentre l’altro si sistema tra i pali.
La folla assiepata sulle gradinate sembra concentrata in religioso silenzio sull'insolito evento. Scaglio un tiro potente e preciso a cui Sergio si oppone bravamente .
La folla urla di approvazione.
Incoraggiato da questo primo successo, con un eccesso di confidenza nei miei mezzi, tento sul rinvio del portiere un tiro al volo che finisce lontanissimo dai pali..
La folla esplode in un boato di delusione. Capisco che è il momento di appendere le scarpe al chiodo, tanto più che i giocatori stanno rientrando.
Recupero la palla e di corsa la riconsegno all'arbitro che si avvia in quell'istante verso il centro del campo per la ripresa del gioco. Il giovane pare apprezzare il gesto del vazaha .
Risaliamo a balzi gli spalti per il seguito della partita.
Partiti in tre, peraltro a digiuno degli incommensurabili atouts dell’isola, ho rischiato di tornar solo, perché entrambi i miei compagni di viaggio si sono ammalati, chi di malaria (Sergio), chi di schistosomiasi ( Piero), una malattia che si contrae per contatto con molluschi d’acqua dolce, e che, dopo la malaria, è la seconda malattia tropicale per diffusione.
Avevano evidentemente entrambi sottovalutato il rischio infettivo ed effettuato una profilassi non adeguata. Che per la malaria consiste nella clorochina, da cominciare a prendere almeno una settimana prima del viaggio in coppia o senza il guaranil, più una dose di riserva di fluoricil.
La peggio è toccata al Sergio, che al rientro ha accusato febbri da cavallo ( oltre i quaranta), durante le quali fra l’altro delirava accusando i medici al suo capezzale di non curarlo adeguatamente. Comunque se l’è cavata, ma gli è passata la voglia di altre esperienze tropicali.
Da Tana a Fianarantsoa, altro capoluogo degli altipiani centralu, ci sono quattrocento chilometri di route nazionale n. 7, passabilmente scorrevole. A Fiana si raccomanda l’albergo Relais.
Poi comincia il sud dell’isola, a noi ignoto : dicono sia insieme la zona più arida e la più singolare per scenari naturali e flora , a cominciare dal parco nazionale di Isalo, pieno di rocce da Far West..
Nessun commento:
Posta un commento